Regole di priorità e distribuzione del plusvalore concordatario: due passi indietro ed un'occasione importante perduta
06 Aprile 2022
Il diritto concorsuale italiano vigente, come è noto, è ancorato all'idea “rigida” dell'ordine delle cause di prelazioni: si ritiene pertanto che ivi sia accolto il principio della priorità “assoluta” (Absolute Priority Rule: APR), per cui neanche un euro potrebbe essere distribuito ai creditori di rango inferiore, a meno che tutti quelli di rango superiore siano stati integralmente soddisfatti; principio di cui sarebbero espressione diverse norme, tanto del codice civile (art. 2741 c.c.), quanto dell'ordinamento concorsuale (art. 160, comma 2, 124, comma 3, l.fall. ). In realtà il diritto italiano “occulta” l'ampia possibilità di porre in essere una clamorosa alterazione di quell'ordine legale, in senso economico, poiché la apparente rigidità di quella regola attiene alle sole pretese di coloro che il sistema considera come “creditori”; i titolari di partecipazioni al capitale sociale, tuttavia, non sono attualmente considerati creditori, sicché la loro formale estraneità al campo applicativo della regola consente nei fatti che piani di concordato con continuità aziendale pongano a carico persino esclusivo dei “veri” creditori il costo della ristrutturazione, lasciando addirittura al limite anche del tutto invariata la quota di partecipazione al capitale dei soci. Alcune peculiari regole del diritto societario convergono poi nella direzione di apprestare una tutela così invero “eccessiva” agli stessi soci; si pensi alla reputata possibilità di procedere ad aumenti del capitale sociale, pur a fronte di gravissime perdite nel capitale, ed anche di patrimonio netto fortemente negativo, senza previo abbattimento delle stesse perdite, e riduzione del capitale. Tutto ciò rende normalmente persino superflua la possibilità di associare i soci attuali alle sorti della ristrutturazione attraverso l'emissione e l'assegnazione di titoli (warrant) che attribuiscano il diritto di acquistare in futuro azioni della società, a prezzo fisso (strike price). La Direttiva consente di optare fra la regola della “priorità assoluta” (APR) e quella differente della “priorità relativa” (RPR), per la quale l'ordine legale di distribuzione consente di distribuire ricchezza ai creditori di rango inferiore, purché i creditori di rango superiore ricevano un trattamento migliore; anche lo scenario alternativo in cui domina la APR, tuttavia, è suscettibile di attenuazione in forza di alcune “deroghe” ivi consentite (e mediate dall'esperienza nordamericana) all'ordine legale: deroghe ora in favore dei soci (i quali apportino utilità significative al fine della ristrutturazione), oppure di fornitori “essenziali” (considerando n. 56). La bozza di decreto, “ovviamente”, cioè in perfetta sintonia con il ricercato (anche se per lo più pervicacemente negato) proposito di “sovvertire” l'impostazione di fondo del Codice della Crisi (CCII), e nella direzione di consentire ai debitori in crisi di disporre della più ampia e “sfrenata” libertà di azione, introduce disinvoltamente un sistema fondato sulla RPR, consacrando alla APR le sole ragioni dei lavoratori (art. 112). In realtà l'applicazione della RPR riguarda solo la misura eccedentaria rispetto al “valore di liquidazione” del patrimonio del debitore. Ma anche in questo caso l'apparente semplicità della norma, se letta più in dettaglio, porta alla luce evidenti elementi mistificatori: da un lato il “valore di liquidazione”, infatti, sembra mettere a fuoco solo l'alternativa della liquidazione giudiziale, e non anche dell'ipotesi liquidatoria concordataria, e questo nonostante la Direttiva consenta di assumere come alternative possibili un ben diverso novero di soluzioni (il “miglior scenario alternativo possibile”); dall'altro, e soprattutto, lo stesso “valore di liquidazione” sembra riconnettersi (arg. ex art. 87), nelle intenzioni espresse dei conditores, solo ai beni esistenti “alla data della domanda di concordato”; ma in tal modo, com'è credo palese, si fa un grosso “regalo” proprio ai debitori in concordato, posto che la loro libertà di azione viene ampliata in modo considerevole: si mira così in realtà a sterilizzare molte “potenzialità” future che quel patrimonio potrebbe alternativamente esprimere, anche ad es. grazie all'esercizio provvisorio fallimentare, in chiara visione distonica dall'art. 2740 c.c. (così immotivatamente consegnato al dominio delle sole esecuzioni “individuali”, e non al regime generale della responsabilità patrimoniale, anch'essa peraltro ricostruita probabilmente con le lenti di una prospettiva retriva e solo “storica”); inoltre il valore di tali potenzialità può così essere liberamente attribuito a creditori “amici”, oppure addirittura direttamente agli stessi titolari del capitale sociale (v. infra); ma soprattutto, ciò non è in alcun modo determinato dalla Direttiva, bensì solo dalla volontà della Commissione di recepire talune ricostruzioni dottrinali di diritto nazionale, oggetto peraltro di soltanto sporadiche adesioni giurisprudenziali (si pensi alla sentenza della Corte di Appello veneziana del 2019, caso “D'Amante”, peraltro “rimangiata” soltanto due anni più tardi, nel caso “Abaco”). Per i soci poi è sancito (art. 120 quater) il principio per cui il “valore risultante dalla ristrutturazione” (individuato non si sa bene come), ossia, parrebbe, l'eccedenza rispetto al “valore di liquidazione”, potrebbe essere tranquillamente “riservato” ai soci; tuttavia, ove una delle classi (di creditori) si opponesse, il concordato potrebbe essere omologato se comunque fosse stata rispettata la regola della RPR, anche ove, in caso di “liquidazione”, il “valore complessivamente riservato ai soci” fosse stato attribuito alle classi dissenzienti. La Relazione poi enfatizza, con un certo autocompiacimento, che nel caso ove non vi sia una classe di rango inferiore a quella dissenziente, la regola unionale sarebbe inapplicabile, sicché in questo caso (invero non certo infrequente) il “plus” offerto dal Legislatore delegato consisterebbe nella regola per cui il concordato potrebbe essere omologato ove comunque il “valore destinato” ai creditori della classe dissenziente fosse superiore a quello “riservato” ai soci. Si potrebbe ragionevolmente pensare che il “valore riservato ai soci” fosse il valore del patrimonio del debitore loro destinato in valore assoluto, ricavato appunto dalla differenza fra “valore di ristrutturazione” e “valore di liquidazione” (peraltro come sopra definito); ma invece la bozza precisa che l'entità in questione va commisurata al valore “effettivo” (e l'aggettivazione, così senza specificazioni, lascia assai perplessi), conseguente all'omologazione, dei titoli di capitale detenuti dai soci medesimi; e non è affatto detto che sia la stessa cosa … Da tale valore “riservato ai soci” si deve comunque detrarre quanto allo stesso apportato dagli stessi soci “ai fini della ristrutturazione”, o a titolo di equity, oppure, ma solo per le “imprese minori” (quali sarebbero? Non certo quelle dell'art. 2, cui il concordato non si applica), anche “in altra forma” (e Dio solo sa cosa ciò significhi). Il testo della norma è chiaramente caratterizzato da evidenti deficit di tecnica redazionale, e presenta non poche perplessità interpretative. Ma non è questo il punto. La scelta espressa della “regola” della RPR, peraltro ancorata ad un tessuto normativo praticamente inestricabile, abbassa in modo irrimediabile il coefficiente di prevedibilità del trattamento che sarà offerto al credito in caso di futuro default del debitore, e soprattutto del recovery ratio; ciò non potrà non influire ex ante sul momento in cui d'ora in poi sarà valutato se erogare o meno il credito, ed a quali condizioni; la imprevedibilità dunque favorirà quantomeno la produzione di rilevanti effetti di “selezione avversa”, ove gli imprenditori più efficienti verranno assoggettati ad un trattamento deteriore rispetto al loro “oggettivo” merito creditizio (in termini di condizioni economiche e garanzie richieste); e di contro gli imprenditori meno meritevoli trarranno invece irragionevolmente vantaggio dalla situazione; si tratta com'è noto della situazione più deteriore, dalla quale qualsiasi buon Legislatore, persino se particolarmente “versato” per il ruolo di “apprendista stregone”, dovrebbe rifuggire; ma quando si presta ascolto solo all'aziendalista (che ha come “scopo” la ristrutturazione dell'azienda), senza degnare di considerazione l'economista, e si considera il “nuovo” come un valore “in sé”, l'esito è purtroppo in gran parte segnato. Basti pensare che l'opzione attualmente in discussione consente in sostanza di destinare l'attivo residuo del debitore, eccedente quello che si ricaverebbe oggi in sede liquidativa, al momento dell'accertamento della crisi, ad una distribuzione sostanzialmente priva di limiti, purché si abbia cura di destinare alle classi antergate un euro in più rispetto a quelle postergate; ed inoltre tale sistema consentirebbe ai detentori dei diritti sul capitale sociale (nella stragrande maggioranza dei casi responsabili di gravi violazioni di legge, alla base delle perdite registrate) di internalizzare quote pur sempre importanti del proprio investimento, purché l'attivo destinato ai soci (al netto di quanto eventualmente da loro apportato, non si sa in che forma e con quali metodologie di valutazione) sia inferiore (anche di un euro) a quello attribuito alla classe di creditori meno “favorita”. Non a caso tutti i Paesi europei che hanno già attuato la Direttiva non hanno optato affatto per la RPR, bensì per la APR “con deroghe”. Ancora non per caso negli States le deroghe alla APR sono viste con sospetto, e questo non a causa di oscuri bias culturali, bensì alla luce della consapevolezza degli effetti perniciosi che le violazioni della APR possono produrre appunto ex ante sui comportamenti dei finanziatori, e ciò sulla base di una seria e scientificamente fondata riflessione, anche empirica, che ha avuto inizio negli anni '80, e prosegue ancora oggi. La APR infatti favorisce la prevedibilità del trattamento regolatorio futuro in caso di crisi, e le sue “deroghe” (v. supra), espressamente concepite in funzione della massimizzazione dei risultati in soluzioni ristrutturatorie destinate a riflettersi positivamente anche nella sfera dei creditori, non abbassano normalmente le prospettive di recovery in capo ai creditori, anzi risultano suscettibili di incrementarle; e dall'altro si tratta inoltre di deroghe destinate ad essere amministrate dal Giudice, e dunque da una Autorità percepita come idonea a tutelare la sfera di interessi che gode di “primazia” nel contesto delle ristrutturazioni, quella creditoria. La regola della RPR, invece, viene e verrebbe percepita come idonea a legittimare abusi e discriminazioni, e dunque a deprimere la disponibilità a concedere credito, e soprattutto a concederlo a chi più lo merita. Si tratta di una regola, quella della RPR, che opera infatti sostanzialmente ex post, difficilmente “osservabile”, mentre la APR, grazie al suo operare in modo “prevedibile”, si sposa assai meglio con una prospettiva ex ante. Ancora una volta emerge dunque il “carattere” realmente dominante di questa (contro)Riforma, che non tutela veramente né la continuità aziendale (ma piuttosto gli interessi degli imprenditori in crisi), né tantomeno persegue l'idea della “prevenzione” della crisi, ponendosi anzi nella mera prospettiva (tipica come si è visto dell'aziendalista, ma non dell'economista) dell'incentivazione della prosecuzione dell'attività in sé e per sé, e della ricerca di una soluzione regolatoria della crisi a posteriori. Speriamo dunque che prevalga il buon senso, e che certe soluzioni palesemente disfunzionali vengano presto accantonate, e riconsegnate all'oblio ed alla mera “accademia”. |