Chiarezza e sinteticità del ricorso per cassazione e sua connessione con i dati di fatto processuali

Roberto Succio
25 Agosto 2025

Il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell'intera vicenda giudiziaria.

Massima

La mancanza o la carenza dell'esposizione dei fatti di causa e del contenuto del provvedimento impugnato determina ex se l'inammissibilità del ricorso e non può essere superata attraverso l'esame delle censure in cui si articola il ricorso, né attraverso l'esame di altri atti processuali nel caso in cui ricorrente non abbia svolto alcuna esposizione sommaria dei fatti, limitandosi a riportare nel ricorso per cassazione l'atto di appello senza alcuna sintesi omettendo perfino di rappresentare in modo dettagliato quale sia stata la decisione della Corte di appello impugnata col ricorso. Risultano parimenti inammissibili in quanto generici i motivi incentrati sulla mancata astensione di un giudice in mancanza di ricusazione e sulla mancata indicazione dei giudici che non avrebbero partecipato alle udienze precedenti, così come i motivi incentrati sul generico richiamo a censure non decise o decise erroneamente senza alcun riferimento alle norme che si assumono violate e senza proporre alcuna censura veicolata secondo i parametri del giudizio di legittimità.

Il caso

Nella specie la Corte dichiara l'inammissibilità del ricorso ai sensi dell'art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c. in quanto “il medesimo manca di una esposizione dei fatti della causa che consenta alla Corte di comprendere l'oggetto della pretesa e il tenore della sentenza impugnata in coordinamento con i motivi di censura” (Sono richiamate in motivazione Cass., sez. un., 17 luglio 2009, n. 16628; Cass., sez. un.,11 aprile 2012, n. 5698; Cass., sez. VI-III, 28 ottobre 2014, n. 22860). 

L'esposizione sommaria dei fatti sostanziali e processuali della vicenda, sia pur operata in modo sintetico, è funzionale alla comprensione dei motivi nonché alla verifica dell'ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte in forza dell'art. 366 c.p.c., il quale – secondo la pronuncia in nota – “nel dettare le condizioni formali del ricorso, ossia i requisiti di "forma-contenuto" dell'atto introduttivo del giudizio di legittimità, configura un vero e proprio "modello legale" del ricorso per cassazione, la cui mancata osservanza è sanzionata con l'inammissibilità del ricorso stesso”.

Con particolare riferimento al requisito della «esposizione sommaria dei fatti della causa» (art. 366, n. 3, c.p.c.), “che deve avere ad oggetto sia i fatti sostanziali che i fatti processuali necessari alla comprensione dei motivi, va osservato che tale requisito è posto, nell'ambito del modello legale del ricorso, non tanto nell'interesse della controparte, quanto in funzione del sindacato che la Corte di cassazione è chiamata ad esercitare e, quindi, della verifica della fondatezza delle censure proposte. Esiste, pertanto, un rapporto di complementarità tra il requisito della «esposizione sommaria dei fatti della causa» di cui al n. 3 dell'art. 366 c.p.c. e quello – che lo segue nel modello legale del ricorso – della «esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione» (n. 4 dell'art. 366 c.p.c.), essendo l'esposizione sommaria dei fatti funzionale a rendere intellegibili, da parte della Corte, i motivi di ricorso di seguito formulati”.

E' necessario, in sintesi, secondo l'ordinanza in nota, che il ricorrente provveda a mettere la Corte in grado, attraverso una riassuntiva esposizione dei fatti, di avere contezza sia del rapporto giuridico sostanziale originario da cui è scaturita la controversia, sia dello sviluppo della vicenda processuale nei vari gradi di giudizio di merito; solo in tale modo lo scrutinio dei motivi di ricorso può operarsi, in quanto in forza di tale adempimento la Corte viene ad acquisire le conoscenze necessarie per valutare se le censure siano deducibili e pertinenti.

A ciò deve quindi provvedere il patrono del ricorrente, al quale spetta l'onere – secondo la decisione in nota – di provvedere a selezionare “i dati di fatto sostanziali e processuali rilevanti (domande, eccezioni, statuizioni delle sentenze di merito, motivi di gravame, questioni riproposte in appello, etc.) in funzione dei motivi di ricorso che intende formulare, in modo da consentire alla Corte di procedere poi allo scrutinio di tali motivi disponendo di un quadro chiaro e sintetico della vicenda processuale, che le consenta di cogliere agevolmente il significato delle censure, la loro ammissibilità e la loro pertinenza rispetto alle rationes decidendi della sentenza impugnata. L'esposizione sommaria dei fatti della causa, per essere funzionale alla comprensione dei motivi, dev'essere "sintetica", come si evince dal richiamo al suo carattere "sommario", già preteso dal codificatore del 1940”.

A fianco di tali osservazioni, la Corte richiama poi l'art. 3, n. 2, del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010), con riferimento all'obbligo di redigere gli atti «in maniera chiara e sintetica»; oltre che l'istituto dell'ordinanza decisoria, motivata in modo «succinto» e «conciso» (artt. 134 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c.), rispetto alla sentenza.

Tale complessivo argomentare fa concludere per l'esistenza di un diretto collegamento – quasi un vero e proprio nesso eziologico di causa ed effetto – tra l'esposizione dei fatti di causa e la chiarezza e sinteticità degli atti, che risulterebbe quindi sempre garantita solo da tale esposizione.

Scrive infatti la Corte che “deriva da ciò che la mancanza o la carenza dell'esposizione dei fatti di causa e del contenuto del provvedimento impugnato determina ex se l'inammissibilità del ricorso e non può essere superata attraverso l'esame delle censure in cui si articola il ricorso, né attraverso l'esame di altri atti processuali”.

L'affermazione, nella sua parte conclusiva, pare in questo passaggio per vero piuttosto rigorosa, se letta al di fuori del contesto e non coordinata con la situazione processuale della fattispecie concreta sottoposta alla Corte di Legittimità.

Nel caso, la stessa pare adeguata e proporzionata poiché il ricorrente non aveva qui “svolto alcuna esposizione sommaria dei fatti e si è limitato a riportare integralmente il suo atto di appello senza alcuna sintesi omettendo perfino di rappresentare in modo dettagliato quale sia stata la decisione della Corte di Appello impugnata col ricorso”.

E ancora, la Corte nell'esaminare il fatto processuale ha qui rilevato come – in aggiunta – “anche la formulazione dei motivi sconta una insanabile genericità quale ulteriore motivo di inammissibilità sia in relazione alla mancata astensione di un giudice in mancanza di ricusazione, sia in relazione alla mancata indicazione dei giudici che non avrebbero partecipato alle udienze precedenti, sia in relazione al generico richiamo a censure non decise o decise erroneamente senza alcun riferimento alle norme che si assumono violate e senza proporre alcuna censura veicolata secondo i parametri del giudizio di legittimità”.

Alla luce di tale situazione, la Corte ha in concreto rilevato in conclusione una vera e propria impossibilità di percepire e comprendere il contenuto censorio del ricorso, dalla quale ha fatto discendere l'inammissibilità dell'impugnazione. Resta da verificare – poiché la motivazione della pronuncia in nota sul punto non si esprime – se anche dalla lettura della sentenza impugnata (che potrebbe non esser implicitamente compresa negli “atti processuali” ai quali si fa rimando) tale oscurità non sia stata in alcun modo fugata.

La questione

In tema di nullità processuali – come nota autorevole dottrina – «incombe sempre un pericolo»: «che si passi dalla giusta esigenza del rispetto delle forme, che sono poste sia a tutela della libertà delle parti sia per il corretto ed adeguato svolgimento della funzione giurisdizionale, ad un deteriore formalismo, in cui la forma diventa fine a sé stessa e non protegge alcun interesse meritevole di tutela» (Cfr. R. Oriani, voce Nullità degli atti processuali – I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. 1990, XXI, 21).

Il tema intreccia quello dell'accesso al giudice inteso come a diritto della parte a ottenere una decisione di merito ed è oggetto di attenzione anche da parte delle Corti sovranazionali.

Significativamente, infatti, la Corte EDU valuta la compatibilità delle «restrizioni» in argomento, con il diritto in questione, verificando se esse siano giustificate da uno scopo legittimo e risultino proporzionali rispetto ad esso. In tale giudizio di proporzionalità, essa «procede ad un esame in concreto, prendendo in considerazione normalmente tre fattori:

a) la prevedibilità della restrizione;

b) la responsabilità – in capo al ricorrente o alle autorità – degli eventuali errori procedurali che abbiano impedito l'accesso alla giurisdizione superiore; e

c) se la restrizione applicata integri (non tanto una application acceptable des formalite´s proce´durales quanto) un «formalisme excessif», che attenta alla stessa sostanza del diritto di accesso al giudice, inteso appunto come diritto ad ottenere una decisione di merito (G. Raimondi, Corte di Strasburgo e formalismo in Cassazione, in www.giustiziainsieme.it).

La giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698; Cass., Sez. II, 20 ottobre 2016, n. 21297; Cass., Sez. V, 21 marzo 2019, n. 8009; Cass., Sez. V, 30 aprile 2020, n. 8425) ai fini del rispetto dei limiti contenutistici di cui all'art. 366, primo comma, n. 3) e 4), c.p.c. è costante nel ritenere che il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità al dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell'intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell'ambito della tipologia dei vizi elencata dall'art. 360 c.p.c.

L'inosservanza di tale dovere pregiudica l'intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e, pertanto, comporta la declaratoria di inammissibilità del ricorso, ponendosi in contrasto con l'obiettivo del processo, volto ad assicurare un'effettiva tutela del di- ritto di difesa (art. 24 Cost.), nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo (artt. 111, secondo comma, Cost. e 6CEDU), senza gravare lo Stato e le parti di oneri processuali superflui.

Le soluzioni giuridiche

E' ben nota la pronuncia CEDU (Corte EDU 28 ottobre 2021, n. 55064/11, Succi/Italia; la pronuncia aveva ad oggetto proprio una declaratoria di inammissibilità di ricorsi da parte della Corte di cassazione italiana per violazione del vigente art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c.) con la quale si è decretato che «è affetta da eccessivo formalismo, e pertanto viola l'art. 6, par. 1 della Convenzione, una applicazione del principio di autosufficienza che porti alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso qualora la sua lettura, con l'aiuto dei riferimenti ai passaggi della sentenza del giudice di appello e ai documenti rilevanti citati nel ricorso, permetta di comprendere l'oggetto e lo svolgimento del procedimento nei gradi di merito, nonché la portata dei motivi svolti, sia per quanto riguarda il loro fondamento giuridico” (La si veda pubblicata in Giur. it. 2022, 1125 ss., con nota di D. Castagno, Il principio di autosufficienza al vaglio della Corte europea dei diritti dell'uomo; nonché in Foro it. 2022, IV, 1113 ss., con nota di E. Damiani, Il principio di autosufficienza del ricorso nella prospettiva della Corte europea dei diritti dell'uomo).

Dovrà quindi verificarsi in concreto la percepibilità del tipo di censura proposta fra quelle previste dall'art. 360 c.p.c. e il loro contenuto di critica alla pronuncia gravata.

Pertanto, ad oggi il ricorrente non sconta l'obbligo di fornire alla Corte una generica «esposizione sommaria dei fatti di causa», come era nel previgente n. 3 dell'art. 366 c.p.c., col rischio di una declaratoria di inammissibilità del ricorso anche per l'omessa esposizione di fatti irrilevanti agli effetti della decisione dei motivi di ricorso – da cui la condanna per eccessivo formalismo, e violazione dell'art. 6 Conv., pronunciata dalla Corte EDU – ma è nondimeno tenuto ad esporre in modo chiaro e sintetico soltanto i fatti di causa «essenziali» alla comprensione dei motivi di ricorso.

Tale prospettazione pare sostenuta dal fatto che la giurisprudenza della Suprema Corte era, prima della pronuncia CEDU sopra citata, quantomeno divisa sull'interpretazione dell'art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c. Da un lato alcune pronunce sposano un'impostazione più formalistica, considerando inammissibile il ricorso per la semplice carenza di uno dei requisiti di contenuto-forma previsti dall'art. 366, comma 1 c.p.c., ivi compreso quello di cui al n. 3 dell'esposizione dei fatti di causa (Cass. civ., sez. un., 9 marzo 2020, n. 6691; conf., con specifico riguardo alla sommaria esposizione dei fatti di causa v. Cass. civ. 11 ottobre 2005, n. 19756; Cass. civ. 16 gennaio 2014, n. 784; Cass. civ. 28 settembre 2016, n. 19047; nonché più di recente, e successivamente alla sentenza della Corte EDU richiamata nel testo, v. Cass. civ. 28 dicembre 2021, n. 41796, in Giur. it. 2022, 1871 con nota di D. Castagno, La Cassazione torna sulla sommaria esposizione dei fatti in seguito all'intervento della Corte EDU). Altro orientamento, sostanzialmente coevo, preferiva una lettura più teleologica della norma, in conformità al principio di strumentalità delle forme, ritenendo che per soddisfare il requisito dell'esposizione sommaria dei fatti di causa prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dal n. 3 dell'art. 366 c.p.c., non era necessario che tale esposizione costituisse parte autonoma del ricorso, risultando sufficiente il suo risultare “in maniera chiara dal contesto dell'atto, attraverso lo svolgimento dei motivi” (Cass. civ. 28 giugno 2018, n. 17036; in senso conforme v. anche Cass. civ. 8 luglio 2014, n. 15478; Cass. civ. 28 febbraio 2006, n. 4403; Cass. civ.. 19 aprile 2004, n. 7392; per ulteriori approfondimenti, R. Frasca, Ricorso per cassazione, controricorso, ricorso incidentale, in La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, a cura di M. Acierno, P. Curzio A. Giusti, Bari 2020, 101 ss.).

Alla luce di quanto sopra, mi pare comunque che non siano stati del tutto chiariti tutti i profili problematici, come si evince anche dall'ampia motivazione con la quale nell'ordinanza in nota di illustrano le ragioni della dichiarata inammissibilità del ricorso.

All'esito della riforma del codice di rito si pone, inoltre, il problema di munire di contenuto e significato concreto i riferimenti normativi alla chiarezza dell'esposizione dei fatti, all'essenzialità di questi ultimi, alla chiarezza e sinteticità dell'esposizione dei motivi, alla specificità dell'indicazione degli atti oltre che alla relazione che deve sussistere con ciascun singolo motivo di gravame, in ultimo alla rilevanza degli stessi.

Se la sinteticità attiene non alla brevità ma all'adeguatezza dell'esposizione alle questioni oggetto del ricorso, la chiarezza può essere declinata in una dimensione puramente formale, quale ordine ma anche in una dimensione sostanziale, quale vera e propria comprensibilità, la giurisprudenza ricollega la chiarezza, per entrambi i profili, anche alla specificità dei motivi ed alla autosufficienza del ricorso, essendo una condizione necessaria dell'intellegibilità della doglianza.

Alla luce della pronuncia della Corte EDU già citata, sarebbe stato assai opportuno un intervento legislativo – in ordine al quale anche la riforma è rimasta silente – per dare sistemazione normativa sia al profilo conoscibilità ex ante, vale a dire della prevedibilità, del contenuto dei criteri atti a determinare l'ammissibilità del motivo, sulla quale torna spesso la Corte sovranazionale (Cfr. la sentenza CEDU nel caso Succi, cit. ut supra, par. 82, seconda parte) sia al profilo della limitata efficacia delle interpretazioni giurisprudenziali in relazione all'accesso al giudizio di legittimità e della stabilità degli stessi (Cfr. la sentenza CEDU nel caso Succi, cit. ut supra, par. 82, prima parte) nel tempo.

In futuro, in ogni caso, le valutazioni relative del giudice di legittimità resteranno soggette al sindacato di convenzionalità operato a Strasburgo (Cfr. la sentenza CEDU nel caso Succi, cit. ut supra, par. 93) ed in tale ambito da un lato il criterio della sinteticità ha avuto, sia pure con certe cautele, l'avallo della CEDU per quanto non vi siano ancora pronunce che affrontano ex professo la compatibilità con la Convenzione del criterio della chiarezza sostanziale, che pare venire in rilievo anche nel caso che ci occupa.

In particolare, mi pare ancora poco esplorata la valutazione dell'illustrazione dei fatti che risulti incompleta, magari anche volutamente parziale, ma anche solo generica o comunque non idonea, come qui ha rilevato il Collegio; non minore rilievo potrebbe qui avere l'esposizione – in direzione logica opposta – di circostanze che siano in concreto prive di rilevanza ai fini della decisione.

Resta analogamente priva di soluzione una situazione in cui siano passate sotto silenzio circostanze essenziali; in tali casi resta da determinare se ciò possa aver effetto analogo conducendo alla inammissibilità del ricorso. Ancora, non vi sono indicazioni chiare in ordine alla legittimità dell'applicazione della sanzione dell'inammissibilità ad una esposizione che sia del tutto prolissa, in quanto ripetitiva, ma nondimeno risulti chiara: sotto questo profilo impedire in questi casi l'accesso al giudice della Legittimità mi pare soluzione formalistica, quindi insoddisfacente (Si vedano in argomento L.R. Luongo, Il "nuovo" requisito della chiarezza del ricorso per cassazione nella legge 26 novembre 2021, n. 206 (legge delega di riforma del processo civile) e l'arrêt Succi e a. c. Italia, Judicium.it, 9 febbraio 2022. V. anche G. Scarselli, Per l'affermazione del principio di autosufficienza della sentenza, in Judicium,it, 5 aprile 2018).

Osservazioni

In ultimo, chi scrive nota – sommessamente – come la pronuncia in nota, pure esprimendo principi che non paiono da essa difformi, non richiama in motivazione quella nota sentenza massimamente nomofilattica (Cass., sez. un., 30 novembre 2021, n. 37552) che, tra quelle note, ha indicato con assoluto nitore il punto di equilibrio tra le esigenze delle quali si è detto.

Essa sancisce che il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell'intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell'ambito della tipologia dei vizi elencata dall'art. 360 c.p.c.; tuttavia l'inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l'intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell'art. 366 c.p.c.

In altri termini, quindi, ciò che conta è la comprensione del contenuto della censura: se essa risulta compresa, la Corte dovrà ritenerla espressa in modo chiaro e sintetico; se essa non risulta compresa, la Corte dovrà limitarsi a prendere atto di tale incomprensibilità, che può solo derivare dal difetto di chiarezza e specificità.

In massima sintesi, pare questo il canone cui attenersi.

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