La Corte costituzionale “salva” la disciplina ostativa delle pene sostitutive in nome delle esigenze di prevenzione generale

Fabio Fiorentin
28 Agosto 2025

La pronuncia della Consulta sancisce la compatibilità costituzionale del regime ostativo all'applicazione delle “nuove” pene sostitutive introdotte dalla riforma “Cartabia”, affermando la legittimità dell'esclusione dall'accesso a tali tipologie sanzionatorie dei condannati per taluno dei particolari delitti indicati nell'art. 4-bis della l. n. 354/75, prevista dal novellato art. 59, lett. d), l. n. 689/1981. Per confermare la preclusione assoluta, tuttavia, la Corte ricostruisce il rapporto tra le diverse funzioni della pena ammettendo che, in alcuni casi, l'obiettivo di prevenzione generale debba prevalere sulle altre, pur legittime, finalità della pena ed anche sulla stessa finalizzazione rieducativa della medesima.

La questione sottoposta allo scrutinio di costituzionalità

La Corte costituzionale ha affrontato la disciplina delle pene sostitutive introdotta dalla “riforma Cartabia” (d.lgs. n. 150/2022), delibando, in particolare la costituzionalità della disciplina “ostativa” contenuta nell'art. 59, lett. d), della legge n. 689/1981, novellato dalla riforma, alla luce degli artt. 3 e 27 comma 3, della Carta fondamentale, nella parte in cui la evocata disposizione prevede, in termini assoluti, che la pena detentiva non possa essere sostituita nei confronti di imputati infraventunenni di reati di cui all'art. 609-bis c.p. anche quando il giudice ritenga che il rischio di recidiva possa essere salvaguardato dall'applicazione una sanzione sostitutiva nonché, in raffronto agli artt. 327 comma 3 e 76 Cost. e nella parte in cui, più in generale, non consente la sostituzione della pena detentiva nei confronti dell'imputato di uno dei reati di cui all'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis, comma 2, c.p. (quest'ultima, integrata dalla  collaborazione processuale in rapporto a una serie di delitti contro la P.A., risulta attualmente priva di rilevanza, stante l'intervenuta espunzione, ad opera del decreto-legge n. 162/2022, di tale tipologia di reati dal “catalogo ostativo” alla concessione dei benefici penitenziari contenuto nell'evocato art. 4-bis ord. penit.).

Una preclusione assoluta che non trova analogie nell'ordinamento penale

La disciplina “ostativa” all'accesso alle pene sostitutive contenuta nel novellato art. 59 l. n. 689/1981 è oggi molto più severa di quella di matrice penitenziaria fondata sul disposto dell'art. 4-bis l. n. 354/1975, che la Corte costituzionale e – prima ancora – quella di Strasburgo – hanno censurato per contrasto con i fondamentali principi della vocazione rieducativa della pena e della necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio.

Infatti, a differenza del similare regime penitenziario che consente comunque - in seguito all'accertamento dell'avvenuta collaborazione con la giustizia (art. 58-ter ord. penit.) ovvero anche in assenza di essa, alle condizioni e con le modalità introdotte dal d.l. n. 162/2022 - l'accesso ai benefici penitenziari – la preclusione in materia di pene sostitutive introdotta dalla riforma “Cartabia” non prevede alcuna eccezione pur a fronte di misure del tutto sovrapponibili alle (omonime) misure alternative alla detenzione.

La disciplina dell'ostatività cristallizzata nell'art. 59, l. n. 689/81 ha, in altri termini, natura assoluta, nel senso che per il condannato per taluno dei delitti previsti dalla richiamata disposizione penitenziaria non vi è modo di ottenere una pena sostitutiva.

L'unica eccezione, normativamente prevista dall'ultimo comma del medesimo art. 59 è, attualmente, costituita dalla sottrazione dei procedimenti riguardanti soggetti minorenni, analogamente a quanto accade per la disciplina dei benefici penitenziari, dopo che la sentenza costituzionale n. 263/2019 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 27, comma 3 e 31 Cost., l'art. 2, comma 3 d.lgs. n. 121/2018 (recante la “Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni”), che rendeva applicabile l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis ord. penit. ai fini della concessione ai condannati minorenni delle misure penali di comunità (comprese la semilibertà e la detenzione domiciliare).  

Si legge nella Relazione illustrativa alla “riforma Cartabia” che la preclusione di cui all'art. 59 in esame «assicura il coordinamento con le preclusioni previste dall'ordinamento penitenziario, conformemente alla legge delega». In questa prospettiva, osserva ancora la Relazione, «se non si prevedesse una simile preclusione, la disciplina dell'art. 4-bis ord. penit. (e dell'art. 656, comma 9 c.p.p.) risulterebbe sostanzialmente elusa: sarebbe irragionevole limitare la concessione della semilibertà e della detenzione domiciliare, quali misure alternative alla detenzione, subordinandole alla collaborazione e alle ulteriori stringenti condizioni sostanziali e procedurali previste dall'art. 4-bis e, per altro verso, consentire al giudice all'esito del giudizio di cognizione di applicare la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva o, addirittura, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo. Il legislatore delegante, d'altra parte, ha manifestato di esserne ben consapevole nel momento in cui, nel riformare le pene sostitutive, ha chiesto al Governo di “coordinare” con esse la disciplina delle preclusioni previste dall'ordinamento penitenziario per la semilibertà e per la detenzione domiciliare. Consentire tout court l'applicazione delle pene sostitutive in ordine ai reati di cui all'art. 4-bis ord. penit. non realizzerebbe alcun coordinamento con l'ordinamento penitenziario e contrasterebbe con l'indicazione della legge delega. Detto ciò, si ritiene che l'unica ipotesi in cui sia possibile e ragionevole sostituire la pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all'articolo 4-bis sia quella in cui il giudice di cognizione ritiene applicabile la circostanza attenuante della collaborazione di cui all'art. 323-bis, comma 2 c.p., richiamata dall'art. 4-bis per individuare la condotta collaborativa che funge da presupposto per la concessione delle misure alternative alla detenzione nei confronti dei condannati per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione. Se il giudice di cognizione ha già accertato la collaborazione rilevante ai fini dell'art. 4-bis, non vi è ragione per precludere l'applicazione delle pene sostitutive, anticipando la concessione delle misure alternative da parte del tribunale di sorveglianza».

Se questa è la ratio legis, appaiono più chiari i profili problematici di un coordinamento tra il sistema delle pene sostitutive e quello di matrice penitenziaria che, in effetti, non è avvenuto o, comunque, non ha operato in termini adeguati: sia perché, contrariamente a quanto sembra presupporre la Relazione illustrativa, l'accertamento della collaborazione con la giustizia idoneo a rimuovere le preclusioni di cui all'art. 4-bis ord. penit. è (soltanto) quello effettuato dal Tribunale di sorveglianza ai sensi dell'art. 58-ter comma 2, ord. penit. (e non dal giudice della cognizione) così che, nella materia delle pene sostitutive l'istituto della collaborazione non potrebbe operare nel senso di escludere la preclusione assoluta de qua; sia perché la disciplina della “Cartabia” non opera un rinvio integrale alla disciplina dell'art. 4-bis ord. penit., e dunque non recepisce le condizioni indicate dall'art. 4-bis ord. penit. quali “succedanee” alla mancata collaborazione con la giustizia, quali introdotte dal già evocato d.l. n. 162/2022.

Tale mancato coordinamento e avvenuto, verosimilmente, perché il d.lgs. n. 150/2022 è stato emanato il 10 ottobre e il d.l. 162 è del 31 dello stesso mese e quindi, come due sfortunati trapezisti, i due provvedimenti si sono per così dire solo sfiorati senza coordinarsi, nonostante tale necessità fosse stata evidenziata nella già richiamata Relazione illustrativa al d.lgs. n. 150/2022 ove esplicitamente si raccomandava, con riguardo al raccordo tra le preclusioni in materia penitenziaria e quelle in tema di pene sostitutive, che: «Tale coordinamento dovrà tenere conto delle eventuali modifiche apportate alla disciplina della citata disposizione dal disegno di legge S. 2574, attualmente all'esame del Senato e approvato dalla Camera, in prima lettura, il 31 marzo 2022».

 La raccomandazione della Relazione è, purtroppo, rimasta un mero flatus vocis e per tale motivo la disciplina dell'ostatività in materia di pene sostitutive costituisce attualmente un regime la cui rigidità non trova più alcun confronto negli altri sottosistemi e, soprattutto, appare in stridente contrasto con la disciplina di matrice penitenziaria che ha superato – quantomeno formalmente – il sistema delle preclusioni assolute.

Su questo quadro si innestano le questioni di legittimità costituzionale affacciate dai giudici rimettenti, che incentrano le proprie doglianze sul contrasto della disciplina censurata, contenuta nel novellato art. 59 lett. d) l. n. 689/1981 con i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.), della funzione rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.) e per la ritenuta violazione dell'art. 76 Cost.

La dedotta violazione della delega

Tale ultimo profilo di illegittimità è prospettato da uno soltanto dei rimettenti, che ravvisa una violazione della delega conferita dal Parlamento, materializzata dall'introduzione di una preclusione assoluta di accesso alle pene sostitutive per tutti gli imputati dei reati di cui all'art. 4-bis ord. penit.

Così operando – rileva uno dei rimettenti - il legislatore delegato avrebbe disatteso il criterio di delega di cui all'art. 1, comma 17, lett. c), della legge n. 134 del 2021, che officiava il Governo a «prevedere che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi possano essere applicate solo quando il giudice ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati; disciplinare conseguentemente il potere discrezionale del giudice nella scelta tra le pene sostitutive».

Ad avviso del giudice a quo, la delega avrebbe inteso conferire al giudice della cognizione – in armonia con ai principi costituzionali del minimo sacrificio necessario della libertà personale e della finalità rieducativa della pena, nonché nell'ottica di incentivare definizioni alternative del processo – il potere discrezionale di individuare, in ciascun caso concreto, la pena più adatta ad assicurare la rieducazione del condannato compatibilmente con la prevenzione del pericolo di recidiva. La preclusione cristallizzata nella disposizione censurata avrebbe, invece, sterilizzato tale possibilità per tutti gli imputati dei reati di cui all'art. 4-bis ord. penit. tradendo così la direttiva di delega sopra evocata.

La Corte, nel disattendere la prospettazione del rimettente, ha richiamato il criterio contenuto nella lettera d) dell'art. 1, comma 17, della legge delega, che incaricava il legislatore delegato a «ridisciplinare opportunamente le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva, assicurando il coordinamento con le preclusioni previste per l'accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare dall'ordinamento penitenziario», con l'obiettivo evidente di assicurare un coordinamento, in sede di accesso, tra le pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare e le corrispondenti misure alternative alla detenzione della semilibertà e della detenzione domiciliare di cui alla l. n. 354/1975.

Afferma il Giudice delle leggi che in materia di delegazione legislativa, il delegato «gode in via generale di ampi poteri di «“riempimento” normativo» dei criteri indicati dalla legge delega, entro i limiti fissati dal suo oggetto e dalla sua ratio, e all'interno comunque delle scelte di fondo da essa fissati», potendo esercitare un  margine di discrezionalità  che è «specialmente ampio (…) nel caso in cui il Governo sia chiamato a riforme normative di ampio respiro (…), le quali richiedono interventi su distinti corpora normativi e complesse operazioni di coordinamento sistematico tra le molteplici discipline su cui la riforma deve necessariamente incidere».

Ne deriva, ad avviso della Consulta, che il governo, nel novellare l'art. 59 della legge n. 689 del 1981, non ha ecceduto i margini di discrezionalità conferitigli dalla legge delega nel prevedere una preclusione generale e assoluta alla sostituzione della pena per gli imputati dei reati di cui all'art. 4-bis ord. penit., per i quali l'accesso alle misure alternative è previsto solo in seguito a complessi accertamenti, da compiersi in fase esecutiva.

La Corte giustifica una tale scelta con gli obiettivi di speditezza e semplificazione del processo penale, che mal si sarebbero conciliati con i complessi accertamenti richiesti dalla disciplina penitenziaria in rapporto alle vicende della collaborazione ovvero all'accertamento della sussistenza delle condizioni per ammettere il condannato alle misure alternative in assenza della medesima e stante, altresì, la natura “generica” della direttiva di delega volta ad assicurare il «coordinamento» della disciplina delle riformate pene sostitutive con le preclusioni stabilite dall'ordinamento penitenziario, e in particolare dal suo art. 4-bis.

Il fatto, poi, che il delegato abbia introdotto ex novo nel testo dell'art. 59 l. n. 689/1981 una preclusione assoluta prima non esistente deriva – ad avviso della Corte – dall'ampliamento della platea dei potenziali fruitori delle pene sostitutive, che la riforma ha esteso ai condannati a pene detentive non superiori a quattro anni, con la conseguente necessità di coordinare tale nuova disciplina con quella che l'ordinamento penitenziario stabilisce nei confronti dei condanna per reati anche di notevole gravità (gli stessi che, non potendo beneficiare della sospensione condizionale, sono interessati ad accedere alle pene sostitutive).

La spiegazione offerta non convince affatto: proprio il necessario coordinamento con la disciplina penitenziaria avrebbe, infatti, imposto di equiparare dal punto di vista delle possibilità di accesso alle pene (alternative e sostitutive) gli imputati/condannati per taluno dei particolari delitti indicati nell'art. 4-bis ord. penit., laddove nel contesto giuridico-normativo attuale ci si trova di fronte a un sistema schizofrenico e privo di qualunque ragionevolezza che, per le persone condannate a pene fino a quattro anni per reati “di 4-bis”, mentre vieta in termini assoluti l'applicazione della detenzione domiciliare e della semilibertà sostitutive, consente invece, a determinate condizioni, la concessione dei medesimi benefici quali misure alternative.

Anche a voler giustificare tale difformità non con un difettoso coordinamento (come, invece, appare banalmente probabile), bensì con l'esigenza di non incidere sulla speditezza e celerità della definizione dei processi, la spiegazione appare obiettivamente debole, perché sottende l'idea che la libertà personale presidiata dall'art. 13 Cost. debba cedere a fronte dell'obiettivo di deflazionare i tempi processuali, operando così un bilanciamento tra i valori in gioco che non può non destare, francamente, qualche perplessità.

Il divieto assoluto preclude l'individualizzazione della pena

Con riguardo alla dedotta incompatibilità della disposizione censurata con l'art. 3 Cost., i profili di doglianza riguardano l'irragionevolezza di avere fissato un'unica, indifferenziata preclusione a carico degli imputati di tutti i reati di cui all'art. 4-bis ord. penit., dal momento che il “catalogo” ivi contemplato comprende fattispecie eterogenee e differenziate anche sotto il profilo della gravità, senza che al giudice sia consentito alcun vaglio per verificare, nel caso concreto, la effettiva pericolosità e il rischio di recidiva dell'interessato.

Inoltre, secondo i rimettenti, la disciplina censurata introdurrebbe una disciplina differenziata per soggetti condannati, in ipotesi, alla medesima pena, fondata sulla mera base del titolo di reato e si esporrebbe, altresì, a critica perché estesa anche agli imputati che abbiano commesso il fatto essendo minori di ventun anni.

La Corte, nel disattendere tutte le prospettazioni affacciate dai rimettenti, rileva come la riforma del 2022 abbia introdotto nell'ordinamento una panoplia di “pene sostitutive” che, a tutti gli effetti, sono pene vere e proprie alla pari di quelle tradizionali, con queste ultime condividendone – tra gli altri – gli obiettivi di prevenzione generale e speciale.

In tale prospettiva, chiosa la Corte, il legislatore può stabilire, nell'ambito dell'ampia discrezionalità che gli è attribuita, a quali tipologie di reato esse possano applicarsi ed a quali condizioni e limiti, che ben possono riguardare le soglie massime di pena e la tipologia dei reati ai quali si riferiscono, come a es. accade nella disciplina della non punibilità per irrilevanza del fatto (art. 131-bis c.p.) o della messa alla prova (art. 168-bis c.p.).

L'unico argine a tale ampio margine di apprezzamento è quello della manifesta irragionevolezza della scelta effettuata, la creazione di disparità di trattamento o di risultati manifestamente sproporzionati.

E la Corte non ritiene che il legislatore del 2022 abbia travalicato tali limiti. È pur vero – così argomenta il Giudice delle leggi – che il richiamo operato dall'art. 59, lett. d), l. n. 689/1981 tout court all'intero “catalogo ostativo” dell'art. 4-bis ord. penit. riguarda condannati assoggettati a regimi diversi in executivis quanto alla determinazione delle condizioni di accesso ai benefici penitenziari, secondo le specifiche condizioni indicate nelle tre “fasce”, identificate rispettivamente nei commi 1, 1-ter e 1-quater della evocata disposizione penitenziaria; epperò – chiosa la Corte – tutti sono accomunati dall'esigenza di «specifici accertamenti, compiuti di regola durante l'esecuzione della pena, che riguardano la persistente pericolosità del condannato, presunta in via generale dall'ordinamento in relazione allo specifico titolo di reato posto a base della sentenza di condanna», che ordinariamente il giudice della cognizione non è in grado di svolgere e che sono demandati alla cognizione della magistratura di sorveglianza.

Tale comune caratteristica ha, dunque, indotto il legislatore della riforma a sottrarre i detti reati alla possibilità di accesso alle pene sostitutive, con una scelta che non appare manifestamente irragionevole, salva la «verifica di una sua eventuale irragionevolezza o sproporzionalità rispetto a singole ipotesi criminose, tra quelle richiamate negli ormai foltissimi elenchi di cui ai vari commi dell'art. 4-bis ord. penit.».

Il riferimento è all'ipotesi in cui sia stata riconosciuta la circostanza attenuante applicabile nei casi di minore gravità di violenza sessuale e di pornografia minorile che, tuttavia, nella fattispecie scrutinata non viene in rilievo e che dunque sfuggono – almeno per il momento – alla scure dell'incostituzionalità.

La Corte prende, inoltre, posizione rispetto alla prospettazione dell'asimmetria che si verificherebbe sul piano sistematico tra il sistema delle misure alternative, nel cui ambito non è più presente la disciplina dell'ostatività assoluta, e quello delle pene sostitutive, stante la non omogeneità dei termini di raffronto, dal momento che le misure alternative impongono, per i condannati per reati “ostativi”, un obbligato passaggio in carcere (non essendo consentita la sospensione dell'ordine di esecuzione ai sensi dell'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p.), laddove l'avvio della pena sostitutiva avviene, fin dall'inizio, evitando il contatto con il carcere.

L'argomento utilizzato dal Giudice delle leggi desta qualche perplessità, poiché valorizza un profilo squisitamente processuale della disciplina penitenziaria che non appare, obiettivamente, dotato di una valenza dirimente per ritenere “non omogenee” le pene sostitutive a quelle alternative alla detenzione, che, per contro, sono accomunate non solo dal nomen iuris, bensì anche e soprattutto dal regime esecutivo (essendo evidente la gemmazione delle “nuove” pene sostitutive della detenzione domiciliare e della semilibertà dalle omonime misure previste dalla l. n. 354/1975) e dalla possibilità di applicare alle une e alle altre l'istituto della liberazione anticipata.

Altrettante riserve desta la motivazione con cui la Consulta disattende l'ulteriore rilievo dei rimettenti, per i quali sarebbe irragionevole non consentire al giudice di valutare la concreta sussistenza di un rischio di recidiva in capo all'imputato, o comunque la possibilità di contenerlo con una misura diversa dalla detenzione.

La Corte afferma, infatti, che la valutazione da parte del giudice dell'assenza di pericolo di recidiva ai fini della sostituzione della pena detentiva non costituisce un diritto per qualsiasi condannato, essendo riservato «ai soli condannati per i reati per i quali il legislatore – in base a una valutazione discrezionale non manifestamente irragionevole – ha previsto la possibilità per il giudice di irrogare, in luogo della pena detentiva già commisurata, una pena sostitutiva. Quest'ultima, dunque, può essere legittimamente prevista e applicata per taluni reati e non per altri, così come accade per ogni altra pena prevista dall'ordinamento penale, in base a valutazioni politico-criminali che possono essere censurate soltanto ove producano irragionevoli disparità di trattamento, o risultati comunque contrari ai principi di ragionevolezza e proporzionalità».

L'affermazione del Giudice delle leggi pare contrastare con quella stessa elaborazione che, con riferimento all'operatività delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, ha affermato la valenza costituzionale del principio di individualizzazione della pena.

Di questo cruciale profilo si è occupata, in particolare, la sentenza costituzionale 21 giugno 2018 n.149, con cui la Corte ha censurato, alla luce dell'art. 27, comma 3, Cost., il carattere automatico delle preclusioni che, in materia penitenziaria, bloccano o rendono più difficile l'accesso dei condannati alle misure alternative alla detenzione.

Tali automatismi applicativi – ha osservato la Consulta in quel fondamentale arresto - precludono al giudice qualsiasi valutazione individualizzata sulla persona del condannato violando il criterio «costituzionalmente vincolante» che esclude, nella materia dei benefici penitenziari, «rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso» (C. cost. n. 436/1999), non potendo trovare giustificazione costituzionale presunzioni assolute di pericolosità correlate unicamente al titolo del reato commesso (C. cost., n. 90/2017) giacché - se così fosse – la finalità retributiva e di difesa sociale finirebbe per obliterare quella rieducativa, instaurando un assetto «sicuramente in contrasto con i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena» (C. cost., n. 255/2006; C. cost., n. 189/2010, C. cost., n.78/2007, C. cost., n. 445/1997, C. cost., n. 504/1995). 

Il Giudice delle leggi non ripudia in toto meccanismi basati sul raggiungimento, da parte del condannato, di soglie determinate di pena prima di accedere ai benefici penitenziari purché si tratti di limiti ragionevoli, una volta superati i quali, ulteriori preclusioni potrebbero legittimarsi soltanto ove corroborate da una valutazione individualizzata del giudice (ex multis, C. cost., 8 ottobre 2010, n. 291), volta alla verifica della sussistenza, nel singolo caso, di ragioni ostative di ordine specialpreventivo legate alla persistente pericolosità sociale del condannato (C. cost., 26 giugno-2 luglio 1990, n.313).

 In una prospettiva sistematica e alla luce della precedente elaborazione, appare dunque quantomeno distonica l'affermazione della pronuncia in analisi, che pare sottrarre al giudice del merito quel potere/dovere di individualizzare la pena che, al contrario, individua quale momento centrale e ineludibile della cognizione attribuita al giudice di sorveglianza nella fase esecutiva della pena.

Tra l'altro, come riconosce la stessa Corte in un passaggio motivazionale poco oltre, la stessa novella riconosce al giudice di merito un margine di apprezzamento discrezionale nell'applicazione delle pene sostitutive, quando, all'art. 58 l. n. 689/1981, stabilisce che il giudice possa applicare la pena sostitutiva soltanto quando egli ritenga che la pena sostitutiva, «anche attraverso opportune prescrizioni, assicur[i] la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati»; chiarendo anzi che «[l]a pena detentiva non può essere sostituita quando sussistono fondati motivi per ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato».

 Tale rilevata distonia appare ancor più stridente quando (par. 8.4. del considerato in diritto) la Consulta – per respingere la prospettazione della irragionevole disparità di trattamento creata dalla disposizione censurata tra imputati condannati alla medesima pena detentiva soltanto in base al diverso titolo di reato, afferma expressis verbis che: «il titolo di reato costituisce, in realtà, un idoneo criterio discretivo – del resto, ampiamente utilizzato dal legislatore – per stabilire quale sia il campo di applicazione di una pena anziché di un'altra», così recuperando una logica vicina al “tipo di autore” che pareva definitivamente espunta dall'orizzonte del nostro diritto.

Il revirement della Corte sulla primazia della finalità rieducativa della pena

Il profilo della individualizzazione della pena appare centrale anche con riferimento al dubbio di costituzionalità sollevato dai rimettenti con riferimento alla dedotta violazione dell'art. 27, comma 3, Cost., non consentendo, la disposizione dell'art. 59, lett. d), l. n. 689/1981, al giudice di individualizzare il trattamento sanzionatorio, scegliendo quello più idoneo a conseguire la funzione rieducativa della pena ed evitando al condannato un ingresso non necessario in carcere.

La Corte pur ribadendo «la necessità costituzionale che la pena debba “tendere” a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sentenza n. 313 del 1990), tale da non poter essere sacrificata «sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena qualunque sia la gravità del reato commesso dal condannato» (sentenza n. 149 del 2018), compie quello che pare – a tutti gli effetti - un inatteso revirement.

 Infatti, dopo avere affermato che «il legislatore nella fase di comminatoria edittale, e poi il giudice in sede di irrogazione della pena, sono costituzionalmente vincolati a orientare la propria discrezionalità in maniera tale da favorire – e certamente da non ostacolare – quel cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale», nel quale si declina la funzione rieducativa della pena» (sentenza n. 179 del 2017) e che tale principio «si integra, inoltre, con il principio del “minimo sacrificio necessario” della libertà personale, che la costante giurisprudenza di questa Corte deduce dal particolare rilievo costituzionale della libertà personale, solennemente definita «inviolabile» dall'art. 13 Cost. (sentenza n. 95 del 2025, punto 5.2.3. del Considerato in diritto ed ivi ulteriori riferimenti)» da ciò derivando «il dovere di puntuale verifica – da parte del legislatore, del giudice di cognizione e poi della magistratura di sorveglianza – dell'effettiva necessità, rispettivamente, della comminatoria, dell'imposizione e della perdurante esecuzione di pene restrittive della libertà personale, e in particolare della detenzione in carcere», il Giudice delle leggi puntualizza che la finalità rieducativa non è l'unica a giustificare l'applicazione della pena, il cui senso costituzionale si coglie anche con riferimento ad altri obiettivi  – come il contenimento della pericolosità sociale del condannato e la deterrenza nei confronti della generalità dei consociati –, purché non venga del tutto sacrificata la tensione al recupero sociale del condannato.

Ne deriva, ad avviso della Corte, che lo stesso principio costituzionale del minimo sacrificio necessario della libertà personale e quello rieducativo devono cedere a fronte delle altre legittime finalità della pena, tra le quali la tutela della collettività contro la residua pericolosità sociale del condannato.

Questa prima affermazione può essere condivisa, quantomeno in via generale: l'applicazione della pena non può, infatti, certamente risolversi in una messa in pericolo dei consociati. Ma questo delicato equilibrio tra esigenze di difesa sociale e di recupero sociale del reo - che costituisce una regola generale e che deve sempre essere raggiunto nella singola vicenda esecutiva - appare già positivamente acquisito con la ricordata disposizione dell'art. 58, l. n. 689/1981, a cui mente spetta al giudice valutare, appunto, la compatibilità della pena sostitutiva con le esigenze preventive e da questo punto di vista, dunque, il sistema appare già coerente con il quadro disegnato dalla Consulta.

L'affermazione che più desta perplessità è però quella immediatamente successiva, con la quale la Corte dice che la pena deve rispettare anche l'esigenza di prevenzione generale, quella cioè in forza della quale «chi è stato condannato per un grave reato deve in ogni caso iniziare a scontare la propria pena in carcere, senza che sia richiesto al giudice di accertarne, caso per caso, la persistente pericolosità sociale. In quella sede dovrà dunque essere avviato il percorso del suo graduale reinserimento nella società, nel quadro di un trattamento orientato a quei principi di progressività e flessibilità che la risalente giurisprudenza di questa Corte ha tratto dall'art. 27, comma 3, Cost.».

Qui la Consulta sembra guardare non tanto alla pericolosità in concreto dimostrata dal condannato e nemmeno alla pena applicata nel singolo caso (che, per inciso, è graduata proprio con riferimento principale alla gravità del fatto), quanto piuttosto al mero titolo di reato.

L'assertività dell'affermazione (“chi è stato condannato per un grave reato deve in ogni caso iniziare a scontare la propria pena in carcere”) pare, in altri termini, proporre un modello sanzionatorio per il quale il legislatore è discrezionalmente libero di stabilire che, per talune tipologie di reati, sia obbligata la via del carcere, a prescindere dalla pena in concreto irrogata e dall'effettiva necessità della pena detentiva carceraria rispetto ad altre soluzioni possibili nel caso concreto, altrettanto sicure sotto il profilo della tutela della collettività ma meno afflittive dal punto di vista della limitazione della libertà personale.

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