Presunzione di paternità: quando il giudizio di disconoscimento è pregiudiziale rispetto all’azione con cui è chiesto l’accertamento di altra paternità?
27 Giugno 2025
Massima La presunzione di paternità di cui all' art. 231 c.c. non opera per il solo fatto che il figlio è stato generato da donna coniugata, ma solo ove vi sia anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in mancanza, il relativo possesso di stato. Il caso Tizia ricorre dinanzi al Tribunale di Ragusa al fine di ottenere il riconoscimento della propria figlia, nata in costanza di matrimonio ma riconosciuta alla nascita dalla sola madre, quale figlia di Sempronio, anziché del marito, con conseguente ordine al competente ufficiale di stato civile di modifica del cognome. Nell’accogliere la domanda di Tizia, il giudice adito ha respinto l’eccezione sollevata da Sempronio di inammissibilità dell’azione di riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio in assenza di una sentenza definitiva di disconoscimento dello status di figlia nata nel matrimonio. La Corte di Appello di Catania a seguito dell’appello di Sempronio ha confermato la decisione di primo grado e Sempronio ha proposto ricorso per Cassazione deducendo come unico motivo di ricorso violazione di legge in relazione al rigetto dell’eccezione sopra esaminata. La questione La dichiarazione giudiziale di paternità ove riguardi un figlio concepito in costanza di matrimonio deve essere sempre preceduta, quale condizione di procedibilità, dal positivo esperimento dell'azione di disconoscimento della paternità in virtù della presunzione di paternità di cui all'art. 231 c.c.? Le soluzioni giuridiche La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione dei giudici di secondo grado, ha chiarito come il figlio nato in costanza di matrimonio non si presume in quanto tale figlio del marito della madre. La presunzione di paternità, infatti, non opera per il solo fatto che il figlio sia stato generato da donna sposata, dovendo concorrere una delle altre due circostanze fattuali divisate dall'art. 236 c.c., ovverosia il possesso di stato o l'esistenza di un atto di nascita che lo qualifichi quale figlio legittimo della coppia unita in matrimonio. Ove non ricorrano tali ulteriori circostanze poiché, come nel caso affrontato dalla Corte di legittimità, la madre al momento della nascita ha dichiarato il figlio come naturale, non opera la presunzione di paternità né, di conseguenza, il giudizio di disconoscimento di altra paternità è pregiudiziale rispetto a quello con cui viene richiesto l'accertamento della paternità. Osservazioni La pronuncia in commento, intervenuta a circa due anni di distanza dalla sentenza con cui le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità necessaria tra l'azione di disconoscimento della paternità e quella di accertamento di altra paternità (Cass. sez. un. 8268/2023), ha chiarito l'ambito di applicazione della presunzione di paternità e, conseguentemente, delimitato l'ambito di applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite nella pronuncia sopra richiamata. Non si tratta, per vero, di una novità nel panorama giurisprudenziale dal momento che si era già espressa nel medesimo senso la Corte di Cassazione, tra le altre, nelle pronunce Cass. n. 8059/1997 e Cass. 9300/2010 nonché, più di recente, la Corte di Appello di Milano con la sent. 383 del 08.02.2024. L'intervento delle Sezioni Unite nella su richiamata pronuncia, nondimeno, aveva indotto taluni a dubitare della perdurante attualità del costante orientamento seguito dalla giurisprudenza in materia di presunzione di paternità. Per comprendere la soluzione cui è pervenuta la Corte occorre ricostruire sinteticamente il quadro normativo che disciplina il rapporto di filiazione. Il capo I del titolo IV del libro I del codice civile si apre con l'art. 231 c.c. che dispone che il marito è il padre del figlio nato o concepito in costanza di matrimonio. Le successive norme di quel capo stabiliscono i termini entro i quali opera la presunzione di paternità di cui precede. Il successivo capo II del libero I disciplina quindi le prove della filiazione, stabilendo all'art. 236 c.c. che la filiazione si prova con l'atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile e, in mancanza, con il possesso continuo dello stato di figlio. Il successivo art. 238 c.c. stabilisce quindi che “salvo quanto disposto dagli articoli 128, 234, 239, 240 e 244, nessuno può reclamare uno stato contrario a quello che gli attribuiscono l'atto di nascita di figlio legittimo e il possesso di stato conforme all'atto stesso”. Tale ultima norma assume una evidente centralità ai fini della soluzione del caso sottoposto all'esame della Cassazione nella pronuncia in commento. L'art. 238 c.c., infatti, dispone che nessuno può reclamare uno stato contrario al proprio solo ove tale stato risulti dall'atto di nascita e/o dal possesso di stato. Ne consegue che ove lo stato di figlio non risulti dall'atto di nascita ovvero dal possesso di stato non vi sono preclusioni alla reclamabilità dello stato di figlio, e questo anche ove la madre al tempo della nascita o del concepimento fosse unita in matrimonio. La presunzione di paternità, infatti, non obbliga la madre a dichiarare all'ufficiale di stato civile che quel figlio è figlio della stessa e del marito. Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella su richiamata sent. 8268/2023 hanno chiarito che i presupposti per l'applicazione della presunzione contenuta all'interno dell'art. 231 c.c. sono “il matrimonio dei genitori, la maternità della moglie, la nascita o il concepimento in costanza di matrimonio e la paternità del marito”. Orbene è evidente che di paternità si possa parlare in tanto in quanto vi sia un legame biologico tra il figlio e colui che lo ha concepito. Ove il rapporto biologico manchi, la presunzione viene meno. In tal caso si possono verificare due situazioni differenti. La prima è quella presa in esame dalle Sezioni Unite nella pronuncia su richiamata: ove il rapporto biologico di paternità manchi e, nondimeno, lo status di figlio legittimo emerga dalle risultanze anagrafiche, sarà impossibile “far valere lo stato di figlio prima di aver rimosso il titolo cui risulta uno status contrastante” (Sez. Un. 8268/2023cit.) e ciò in virtù del combinato disposto degli artt. 269 c. 1 e 253 c.c. per cui la maternità e la paternità possono essere giudizialmente dichiarate solo nei casi in cui il riconoscimento è ammesso, atto precluso ove si ponga in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova. Ove, al contrario, manchi il rapporto biologico di paternità e difettino altresì ulteriori risultanze anagrafiche e/o fattuali (c.d. possesso di stato), la presunzione non opera, sicché al fine di fare accertare il rapporto di filiazione tra il figlio e il padre biologico sarà sufficiente, tanto per la madre quanto per il padre biologico, esperire l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità (naturale), senza previa contestazione dello stato di figlio legittimo. Il principio della prevalenza del rapporto biologico di paternità rispetto a quello legale, d'altronde, è stato più volte ribadito anche dalla giurisprudenza penale che, chiamata a verificare la configurabilità del delitto di alterazione di stato di cui all'art. 567 c.p. – che punisce chiunque, nella formazione di un atto di nascita, alteri lo stato civile di un neonato mediante false certificazioni o false attestazioni - per l'ipotesi in cui alla nascita la madre coniugata abbia dichiarato che il figlio non è figlio legittimo del marito bensì figlio naturale della stessa e di un altro partner, ha escluso la configurabilità dell'ipotesi delittuosa in esame affermando come la norma penale miri a garantire la conformità tra le dichiarazioni rese e il rapporto biologico di filiazione (cfr. Sez. Un. 30 maggio 1959, Cass. pen. 4453/2004). |