Nel giudizio di dichiarazione di paternità, ai fini della prova del rapporto di filiazione, è sufficiente la prova del DNA
17 Giugno 2025
Massima In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l'ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all'esito della prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall'art. 269, comma 2, c.c., non tollera limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l'imposizione, al giudice, di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status. Il caso Tizio, dopo aver ottenuto il disconoscimento della paternità del marito della madre, cita in giudizio Caio chiedendo il riconoscimento di paternità di costui e il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento dei doveri genitoriali. Il Tribunale di Torino accoglie la domanda di riconoscimento di paternità, ma rigetta quella di risarcimento dei danni. Tizio impugna, quindi, la sentenza nella parte in cui non ha condannato Caio al risarcimento dei danni. Gli eredi di Caio, nelle more deceduto, propongono appello incidentale in ordine al riconoscimento di paternità. La Corte di appello di Torino accoglie il ricorso principale e rigetta quello incidentale. Gli eredi di Caio propongono ricorso per cassazione, affidandolo a nove motivi. In particolare, quanto all’accertamento del rapporto di filiazione, i ricorrenti lamentano che il giudice territoriale avrebbe erroneamente ritenuto sufficiente la prova del DNA, senza valutare altri elementi che portavano ad escludere l’esistenza di rapporti tra la madre di Tizio e Caio al momento del concepimento. La Corte Suprema ha rigettato i motivi attinenti all’accertamento della paternità e ha accolto il ricorso limitatamente al sesto e settimo motivo di censura, concernenti la domanda di risarcimento dei danni, con rinvio per un nuovo esame alla Corte di appello di Torino in diversa composizione. La questione Come può essere raggiunta la prova del rapporto di filiazione nel giudizio di dichiarazione giudiziale di paternità? Le soluzioni giuridiche Nell'ordinanza in commento, la Corte Suprema affronta diversi profili dell'azione di cui all'art. 269 c.c., tra cui quello del regime delle prove, riguardo al quale si pone in una posizione di continuità rispetto ai precedenti arresti sul tema. Con il primo motivo di ricorso, gli eredi del padre biologico hanno dedotto la violazione di legge, ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., in relazione agli artt. 2727 (presunzioni), 2729 (presunzioni semplici), 2697 c.c. (onere della prova) e 115 c.p.c. (disponibilità delle prove). Nello specifico, i ricorrenti hanno sostenuto che l'analisi del DNA, sulla quale i giudici di merito avevano fondato la propria decisione, non era probante, in quanto al tempo del concepimento di Tizio sarebbe stato impossibile che la madre avesse avuto rapporti sessuali con Caio e hanno affermato che “per poter costituire prova di paternità l'esame del DNA deve essere riscontrato dalla obiettiva certezza di rapporti sessuali tra la madre e il preteso padre e non può – da sé solo – integrare piena prova di paternità allorché detti rapporti sessuali debbano essere esclusi”. Quanto alle risultanze del test immuno-genetico, nel medesimo motivo è stato dedotto che l'allele rinvenuto nel corredo biologico di Caio, coincidente con quello di Tizio, poteva in via teorica essere presente anche nel corredo biologico dei genitori legittimi di Tizio e che non erano state prese in considerazione dai giudici di merito alternative scientificamente possibili, quali una mutazione genetica dovuta all'esposizione a radiazioni. La Corte Suprema ha ritenuto il motivo inammissibile, risolvendosi in una censura di merito, e ha ribadito come spetti al giudice di merito, nell'esercizio del proprio potere discrezionale, la valutazione circa l'opportunità di disporre indagini suppletive o integrative, di chiedere chiarimenti al CTU o disporre la rinnovazione delle indagini (Cass. n. 6025/2015). Difatti, ai sensi dell'art. 116 c.p.c., la valutazione delle prove è rimessa al prudente apprezzamento del giudice ed è inammissibile in sede di legittimità la doglianza che costui abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune prove piuttosto che ad altre (Cass. S.U. n. 20867/2020; Cass. n. 27847/2021). Quanto più specificamente in tema di dichiarazione giudiziale di paternità, il principio di libertà della prova è sancito dall'art. 269, comma 2, c.c., in base al quale la prova delle paternità (e della maternità) può essere data con ogni mezzo, con la conseguenza che l'ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all'esito della prova storica dell'esistenza di una relazione o di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre e non tollera limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare la paternità, né mediante l'imposizione al giudice di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge (Cass. n. 22732/2024; Cass. n. 3479/2016; Cass. n. 23270/2023). Una diversa interpretazione si risolverebbe in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status (Cass. n. 22732/2024). Quanto alla dedotta circostanza che l'allele rinvenuto nel corredo biologico di Caio poteva teoricamente essere presente anche in quello dei genitori legittimi di Tizio, gli Ermellini rilevano che, nel caso di specie, l'azione di accertamento della paternità era stata promossa quando era già passata in giudicato la sentenza di disconoscimento della paternità del padre legittimo e che, pertanto, non si doveva procedere ad ulteriori indagini sul DNA di quest'ultimo. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, non era mai stata accertata l'asserita impossibilità di rapporti sessuali tra Caio e la madre di Tizio. Caio, infatti, era stato medico curante della madre di Tizio in un ospedale piemontese ed è presumibile che i due avessero proseguito la frequentazione nell'ambito di una relazione sentimentale, non impedita dalla modesta distanza geografica delle rispettive residenze al momento del concepimento. Pertanto, avendo la consulenza tecnica accertato la paternità con una probabilità maggiore del 99,99999%, il giudice di merito ha correttamente considerato superfluo indagare su questi rapporti, ritenendo sufficiente la consulenza genetica. La Corte di Cassazione ha, inoltre, ritenuto che la corte territoriale avesse adeguatamente motivato anche in merito all'infondatezza della tesi della mutazione genetica. Osservazioni Nei giudizi di dichiarazione di paternità, la consulenza tecnica immuno-genetica rappresenta, visti i progressi della scienza biomedica grazie ai quali ha acquisito margini di sicurezza elevatissimi sino a sfiorare il limite della certezza assoluta, lo strumento più idoneo per l'acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale. Con esso il giudice accerta l'esistenza o l'inesistenza di compatibilità genetiche, ossia un fatto biologico di per sé suscettibile di rilevazione solo con l'ausilio di competenze tecniche particolari (cfr. Cass. n. 14462/2008) Fondamentale per l'introduzione di tali indagini scientifiche nei giudizi di dichiarazione di paternità è stata la sentenza della Cassazione n. 6400/1980, nella quale la Corte Suprema ha affermato che in tema di dichiarazione giudiziale di paternità (e maternità) naturale, al venir meno dell'elencazione tassativa delle ipotesi in cui l'azione era consentita nella previgente disciplina dell'art. 269 c.c. (modificata dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975) ed alla illimitata ammissibilità dei mezzi di prova, deve corrispondere l'opportunità di acquisire il maggior numero di dati possibili, fermo restando che la loro attendibilità rimane sottoposta alla valutazione del giudice. A seguito di tale pronuncia, l'orientamento della Corte di Cassazione è stato di assoluto favore nei confronti della Ctu ematologica, anche in contrasto con i generali principi viventi nell'ordinamento in materia di consulenza tecnica, inducendo la giurisprudenza di legittimità a ritenerla un mezzo ordinario di prova, e non più uno strumento eccezionale, da ammettere solo ove non sia altrimenti possibile accertare i fatti di causa. Infatti, se di norma il consulente tecnico ha il compito di valutare fatti già accertati o dati per esistenti, dovendo il giudice escludere la Ctu qualora la parte tenda con essa a supplire la deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, nei procedimenti relativi all'accertamento della paternità, costituisce oggi orientamento consolidato (cfr., tra le altre, Cass. n. 23958/2018; Cass. n, 32308/2018) quello secondo cui, tale esame si svolge mediante consulenza tecnica cd. percipiente, ove il consulente non ha solo l'incarico di valutare i fatti acclarati o dati per esistenti, ma anche di accertare i fatti stessi. È necessario e sufficiente, in tal caso, che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del proprio diritto e che il giudice ritenga che l'accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche, perché la consulenza costituisca essa stessa fonte oggettiva di prova (cfr. Cass. n. 22732/2024; Cass. n. 6155/2009; Cass. n. 4792/2013). Riguardo al principio di libertà delle prove in tali procedimenti, in passato sono state ritenute manifestamente infondate questioni di legittimità costituzionale relative a: 1) art. 269, comma 2, c.c. per contrasto con l'art. 30, comma 4, Cost. secondo il quale "la legge detta i limiti per la ricerca della paternità" (cfr. Cass. n. 8059/1997); 2) combinato disposto dell'art. 269 c.c. e artt. 116 e 118 c.p.c. - ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell'espletamento dell'esame del DNA – per violazione degli artt. 13,15,24,30 e 32 Cost.. La giurisprudenza di legittimità si è più volte espressa in merito alla rilevanza probatoria del rifiuto del presunto padre a sottoporsi al test genetico. Sul punto, il consolidato orientamento è quello secondo cui tale rifiuto costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2. c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter, da solo, se privo di adeguata giustificazione, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (cfr. ex multisCass. n. 22732/2024; Cass. n. 7092/2022; Cass. n. 28886/2019; Cass. n. 32308/2018; Cass. n. 16356/2018; Cass. 26914/2017; Cass. n. 3479/2016; Cass. n. 6025/2015; Cass. n. 11223/2014; Cass. n. 12971/2012). In altri termini, dall'art. 269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all'assoggettamento, o meno, ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa, e, inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l'uso dei dati nell'ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal Giudice a compiere l'accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della normativa sulla riservatezza (cfr. Cass. 14458/2018). |