Responsabilità da reato degli enti: su prescrizione e gruppi d’impresa nulla di nuovo

Ciro Santoriello
12 Giugno 2025

La pronuncia della Corte, in tema di responsabilità da reato dell'ente ex d.lgs. n. 231/2001, sottolinea la rilevanza del rapporto tra autore del reato ed ente, in mancanza del quale il reato non può essere ricondotto neppure sotto il profilo oggettivo all'ente, nonché la necessità della riconduzione di tale rapporto alle ipotesi previste dalla lett. a) o lett. b) dell'art. 5 del predetto decreto, che assume rilevanza anche al fine della ricostruzione della "colpa di organizzazione".

Massima

In tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il d.lgs. n. 231 del 2001 richiede che venga accertata la sussistenza di un qualificato rapporto tra autore del reato ed ente che deve essere ricondotto ipotesi previste dalla lettera a) o b) dell'art. 5 del predetto decreto. La sussistenza di una tale relazione, infatti, è indispensabile per riconoscere la presenza della "colpa di organizzazione" dell'impresa.

Il caso

In sede di merito, una società era condannata ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, in quanto il consulente della medesima era accusato di aver costituito, in concorso con i dirigenti di altra società danneggiata, un'associazione per delinquere finalizzata a sottrarre in modo continuativo prodotti petroliferi ad altra persona giuridica, la cui dirigenza per l'appunto era rivestita dagli altri concorrenti nel delitto. In particolare, i diversi soggetti responsabili erano accusati di aver commesso svariati furti (per un valore complessivo di euro 350.000,00), per eseguire i quali organizzavano "doppi carichi": uno "ufficiale", effettuato con le autobotti munite di regolari documenti di trasporto, relativi a prodotti regolarmente acquistati e con accisa pagata; l'altro "in nero", relativo a prodotti trafugati e non pagati alla società fornitrice; con tali condotte, inoltre, si sarebbero integrati pure i delitti previsti dall'art. 2635, commi 1 e 3, c.c., atteso che il consulente della società avvantaggiata dei predetti furti aveva anche versato ai dirigenti della società fornitrice danneggiata dai furti ed in tale veste concorrenti nei diversi illeciti contestati, onde far compiere a costoro atti contrari ai doveri inerenti al loro ufficio e all'obbligo di fedeltà nei confronti dell'impresa da loro diretta. Gli associati, infine, in concorso con gli autisti delle autobotti, con le descritte condotte, avrebbero violato anche l'art. 40, comma 1, lett. b), e comma 4, d.lgs. n. 504/1995 e l'art. 49, comma 1, d.lgs. n. 504/1995, sottraendo al pagamento delle accise i prodotti rubati, che venivano trasportati anche senza i regolari documenti di trasporto.

In questo quadro accusatorio, la persona giuridica nel cui interesse erano stati posti in essere i vari delitti contestati era stata ritenuta responsabile «per non aver impedito ed anzi essersi avvalsa del profitto dei delitti di cui sopra, permettendo che [il suo consulente imputato] ... organizzasse le condotte criminose indicate e ne riversasse i proventi a vantaggio della società».

In sede di ricorso per cassazione, la difesa lamentava che la persona fisica, consulente della società avvantaggiata dai contestati delitti, non poteva essere inquadrato in nessuna delle categorie soggettive indicate dall'art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001, non essendo inserito nell'organigramma societario e non esercitando, neppure di fatto, alcun potere di gestione dell'ente. I giudici di merito si sarebbero limitati ad affermare che la sussistenza di tale requisito soggettivo sarebbe desumibile dal fatto che l'imputato era procuratore della società e che lavorava nel settore commerciale dell'azienda di famiglia, ma l'oggetto della procura era completamente avulso dall'ambito commerciale e atteneva ad attività estranee a quelle incriminate.

Con una seconda censura, veniva contestata la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui aveva addebitato il reato soggettivamente all'ente, fondando il proprio «convincimento sul concetto di colpa della persona fisica» e su quello «di omissione del modello d'organizzazione e gestione», in tal modo «confondendo il quoziente soggettivo della persona fisica con la colpevolezza di organizzazione dell'ente», senza fornire puntuale motivazione in ordine alla "colpa di organizzazione", ponendosi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, che avrebbe affermato che non sarebbe sufficiente la mancanza o l'inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l'appunto, della "colpa di organizzazione", che caratterizza la tipicità dell'illecito amministrativo.

La questione

Come è noto, l'art. 5, d.lgs. n. 231/2001, al fine della configurabilità della responsabilità amministrativa dell'ente, oltre al compimento del reato nell'interesse o a vantaggio dell'ente, richiede l'ulteriore elemento del rapporto qualificato tra l'autore del reato presupposto e l'ente. Il reato, infatti, deve essere stato commesso da persone che «rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso» [art. 5, lett. a), d.lgs. n. 231/2001] oppure da persone «sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a» [art. 5, lett. b), d.lgs. n. 231 del 2001]. Solo in presenza del legame soggettivo tra reo ed ente e quello teleologico tra reato ed ente è possibile configurare la responsabilità amministrativa dell'ente, in quanto solo in presenza di tali legami si può ritenere che l'ente risponda per un fatto proprio e non per un fatto altrui.

Come emerge dal chiaro dato letterale e come confermato dalla giurisprudenza di legittimità, possono venire in rilievo anche i reati commessi da soggetti che non rivestano incarichi formali, quando questi, di fatto, esercitano sull'ente poteri di gestione o di controllo sul medesimo (Cass., sez. V, 20 ottobre 2023, n. 3211. In dottrina, Santoriello, La responsabilità amministrativa delle società per gli illeciti commessi nel loro interesse da parte dei c.d. gestori di fatto, in Resp. amm. soc. enti, 2007, 1, 119). In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che «in tema di responsabilità dell'ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, la nozione di controllo cui fa riferimento l'art. 5, comma 1, lett. a), ultimo periodo, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 non coincide con quella di controllo della società delineata dall'art. 2359 cod. civ., ma ricomprende anche l'attività di vigilanza o, comunque, di verifica e incidenza nella realtà economico-patrimoniale della società, sovrapponibile a quella svolta dai sindaci o dagli altri soggetti a ciò formalmente deputati» (Cass., sez. V, 20 ottobre 2023, n. 3211).

In dottrina, sull'art. 5 ed in particolare sulla nozione di soggetto apicale, Visconti, Non solo “socio tiranno”: la Corte di Cassazione ridefinisce l'ambito di applicazione dell'art. 5 d.lgs 231/2001, in Arch. Pen., 2024, 1; Veneziani, Sub Art. 5. Responsabilità dell'ente, in Enti e responsabilità da reato, a cura di Cadoppi, Garuti, Veneziani, Torino, 2010, 113; Di Bitonto, Disciplina dei soggetti e degli atti: peculiarità, in Responsabilità da reato degli enti, a cura di Lattanzi, Severino, II, Torino, 2020, 56; Paliero, La responsabilità delle persone giuridiche; profili generali e criteri di imputazione, in Il nuovo diritto penale delle società, a cura di Alessandri, Milano, 2002, 53.

La circostanza che l'art. 5 faccia ricorso a due diverse categorie di soggetti e l'individuazione della specifica categoria cui far rientrare eventualmente il soggetto ritenuto responsabile dell'illecito è di significativa importanza. Infatti, la rilevanza dei modelli di organizzazione e della disciplina prevista dagli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001, è diversamente articolata proprio sulla base del tipo di legame tra l'autore del reato e l'ente, atteso che l'art. 6 prevede una disciplina per i casi in cui i reati siano stati commessi da soggetti apicali e l'art. 7 ne prevede una differente per i casi in cui i reati siano stati commessi da soggetti subordinati a quelli che rivestono ruoli apicali: nel primo caso, è l'ente a dover dimostrare l'adozione ed attuazione, prima della commissione del fatto, di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, la presenza in azienda di un Organismo di Vigilanza dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo e la circostanza che le persone che hanno commesso il reato hanno eluso fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; nel secondo caso, invece, la sussistenza di un deficit organizzativo deve essere dimostrata dal pubblico ministero, venendo «esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi».

Quanto alla natura della disciplina dettata con riferimento all'ipotesi in cui il reato presupposto sia stato commesso da un cd. apicale, per lungo tempo la giurisprudenza ha ritenuto che la previsione in commento avesse introdotto senz'altro un onere della prova in capo all'ente, che per l'appunto avrebbe dovuto dimostrare l'adozione ed efficacia attuazione del modello organizzativo (​Cass., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615; Cass., sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735. In sede di merito, GIP Trib. Bari, 18 aprile 2005), ma la (ritenuta) dubbia compatibilità di questa conclusione con il nostro dettato costituzionale (​Ferrua, Il processo penale contro gli enti: incoerenze ed anomalie nelle regole di accertamento, in Garuti (a cura di), Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, Padova, 2002, 232; Paulesu, Responsabilità penale degli enti e regole di giudizio, in Riv. Dir. Proc., 2013, 844; Fiorio, Presunzione di non colpevolezza ed onere della prova, in ID. (a cura di), La prova nel processo enti, Torino, 2016, 145; Bernasconi, Modelli organizzativi, regole di giudizio e profili probatori, in ID. (a cura di), Il processo penale de societate, Milano, 2006, 65; Riverditi, La responsabilità degli enti: un crocevia tra repressione e specialprevenzione, Napoli, 2009, 229. Si veda anche Amodio, Prevenzione del rischio penale di impresa e modelli integrati di responsabilità degli enti, in Cass. Pen., 2005, 320 secondo cui se non ha alcun fondamento «l'ipotesi di una colpa presunta quale elemento sintomatico della colpevolezza dell'ente, è vero invece che la responsabilità dipendente dal reato commesso da un soggetto apicale prescinde da qualsiasi considerazione sull'elemento soggettivo dell'ente») ha nel prosieguo indotto la Cassazione a ripensare le sue conclusioni sostenendo che non si è in presenza di alcuna inversione dell'onere della prova « gravando comunque sull'accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui all'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 e la carente regolamentazione interna dell'ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria » (​Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 38343. Tesi ribadita di recente da Cass., sez. VI, 11 novembre 2021, n. 23401).

Questa nuova impostazione, tuttavia, non convince. Nell'intento di evitare un (supposto) contrasto con l'art. 27 Cost., la Cassazione giunge chiaramente ad una lettura della disposizione contrastante con il dato letterale della stessa: l'art. 6 altro non richiede all'accusa che di dimostrare l'esistenza del reato e la commissione dello stesso da parte di uno dei soggetti indicati, unitamente alla circostanza che l'illecito ha beneficiato o è stato posto in essere nell'interesse della persona giuridica, senza che nella norma compaia alcun riferimento a quella «carente regolamentazione interna dell'ente» di cui fa menzione la Cassazione; acclarato ciò, la società non risponde dell'illecito da reato “se prova...”, il che significa che in presenza di tali accertamenti il peso dimostrativo si sposta interamente sull'ente.

Non solo. La giurisprudenza pare non considerare come, laddove ci si ponga nell'ottica del legislatore, nel caso di specie si è innanzi (non ad un'inversione dell'onere della prova, ma) ad un'ordinaria ripartizione dei gravami dimostrativi: se, infatti, si riconosce la centralità degli organi apicali nella gestione della società e quindi si ritiene che il loro agire delittuoso coinvolga l'impresa manifestandone l'attitudine criminale, ne segue che non possa che gravare sulla società la prova del fatto liberatorio rappresentato congiuntamente dall'idoneità dell'assetto organizzativo e dalla sua elusione fraudolenta ovvero, il che è lo stesso, la dimostrazione che solo mediante una condotta fraudolenta, di cui si ricostruiscono le modalità di condotta, è stato possibile bypassare gli altrimenti efficaci ed idonei presidi precauzionali e preventivi. Di conseguenza, se si vuol tacciare di incostituzionalità il sistema, il vizio risiede nell'adozione da parte del legislatore della teoria dell'immedesimazione organica per costruire la responsabilità dell'ente in caso di reato presupposto commesso dall'apicale; se invece si ritiene tale opzione condivisibile e non irragionevole, richiedere all'ente di provare in questi casi la sua estraneità al fatto — dimostrando l'idoneità del modello che è stato eluso solo in virtù della condotta fraudolenta tenuta dall'autore del reato — è scelta conseguenziale e logica, esente da censure.

In ogni caso, la circostanza che norma richieda che l'ente “provi” l'avvenuta elusione fraudolenta dei modelli di gestione ed organizzazione non significa che la società debba raggiungere, per essere assolta, uno standard dimostrativo in ordine alla sussistenza della circostanza in discorso assoluto ed indiscutibile, analogo a quello richiesto al pubblico ministero nel processo penale per pervenire alla condanna dell'imputata persona fisica. Certo, per l'esclusione della sua responsabilità non è sufficiente la mera affermazione da parte dell'ente che vi è stata una possibile elusione fraudolenta del modello, accompagnata dalla indicazione di alcuni indici che possano far ipotizzare che tale aggiramento dei protocolli organizzativi si sia effettivamente verificato; al contempo, però, può riconoscersi che il dubbio sulla esistenza di un'esimente impone, qualora vi sia un principio di prova o una prova incompleta, l'assoluzione. Quindi, una volta che l'ente imputato abbia dimostrato il ricorrere di elementi ed indizi che, pur se non inequivoci nel loro significato, appaiano comunque idonei a rendere (non pienamente dimostrata la circostanza dell'“elusione fraudolenta”, ma) semplicemente ragionevole e probabile la conclusione che la commissione del reato sia stata possibile grazie ad un aggiramento proditorio del sistema organizzativo, allora la società andrà assolta dall'accusa a lei mossa secondo quanto previsto dall'art. 6 lett. c) d.lgs. n. 231/2001.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato dichiarato fondato con riferimento alla violazione dell'art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001.

Secondo la Cassazione, infatti, la motivazione resa dai giudici di merito in ordine alla qualifica soggettiva rivestita dall'imputato nell'ambito della società imputata era limitata a fare riferimento a una procura speciale, di cui non era specificato il contenuto. Quanto alle dichiarazioni rese dai testi e dallo stesso imputato, che aveva ammesso di lavorare nel settore commerciale dell'azienda di famiglia, sono ritenute affermazioni generiche, dalle quali non è possibile desumere se l'imputato rivestisse nell'ambito della società una delle specifiche qualifiche soggettive, che, ai sensi dell'art. 5, d.lgs. n. 231 del 2001, consentirebbero di estendere la sua responsabilità all'ente e, tantomeno, da esse è possibile desumere quale, tra le diverse categorie soggettive indicate dalla norma, venisse specificamente in rilievo.

Viene nella decisione richiamata la giurisprudenza di legittimità che in più occasioni ha sottolineato come la struttura dell'illecito addebitato all'ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale «la relazione funzionale sussistente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell'organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo». La sussistenza di tali relazioni «consente di affermare che l'ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui» (Cass., sez. IV, 15 febbraio 2022, n. 18413; Cass., sez. IV, 8 gennaio 2021, n. 32899).

Il legame soggettivo tra autore del reato presupposto ed ente è – come detto in precedenza – descritto dall'art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001, la cui lettera a) riconosce rilievo alle persone che rivestono un ruolo apicale nell'ambito dell'ente, comprese quelle che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo sull'ente. Alla successiva lettera b) viene, invece, dato rilievo anche al rapporto tra l'ente e i soggetti subordinati a quelli che rivestono un ruolo apicale.

Solo in presenza di una responsabilità soggettiva di un soggetto rientrante in uno delle categorie anzidette può poi verificarsi la sussistenza, all'interno dell'ente, della cd. "colpa di organizzazione", consistente, essenzialmente, nel non avere predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato.

Infatti, nella misura in cui può parlarsi di una colpevolezza della persona giuridica in ragione della circostanza che la condotta criminale dell'agente sia stata conseguenza (non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto) di un preciso assetto organizzativo "negligente" dell'impresa - da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione di uno dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Cass., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343) -, è palese che un tale nesso fra deficit organizzativo e comportamento illecito è ipotizzabile solo se la persona fisica autrice del reato era operante in azienda ed ha potuto “approfittare” della confusione nella stessa presente per violare la legge penale.

Da queste considerazioni, la Cassazione fa derivare la necessaria rilevanza del rapporto tra autore del reato ed ente, in mancanza del quale il reato non può essere ricondotto neppure sotto il profilo oggettivo all'ente, nonché la necessità della riconduzione di tale rapporto alle ipotesi previste dalla lettera a) oppure a quelle previste dalla lettera b) dell'art. 5, che assume rilevanza anche al fine della ricostruzione della "colpa di organizzazione", ma su tali profili, secondo la decisione in commento, i giudici di merito si erano limitato «a delle generiche e confuse asserzioni, facendo riferimento, in alcuni casi, al ruolo di consulente della società che sarebbe stato rivestito dall'imputato e, in altri, al fatto che egli avrebbe lavorato nel settore commerciale dell'azienda di famiglia», asserzioni che non consentono di ritenere accertato il rapporto tra autore del reato ed ente e, tantomeno, di stabilire la particolare tipologia del suddetto rapporto e, cioè, se l'imputato rivestisse, formalmente o di fatto, un ruolo apicale all'interno della società coinvolta oppure fosse persona sottoposta alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti che rivestiva un ruolo apicale all'interno della società.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione è senz'altro condivisibile, sia nella parte in cui sottolinea la necessità che l'accusa verso la società necessita della dimostrazione di un rapporto organico fra l'autore del reato presupposto e l'ente imputato, sia nella parte in cui sottolinea che le indagini devono anche essere in grado di individuare quale tipologia di rapporto intercorra fra la persona fisica e la persona giuridica ovvero se la prima sieda o meno al vertice dell'impresa collettiva, posto che a seconda che si versi nell'ipotesi di cui alla lett. a) o di cui alla lett. b) dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001 è diversa la regola di giudizio e lo standard probatorio richiesto per pervenire alla condanna dell'ente.

Tuttavia, queste considerazioni evidenziano l'attualità delle considerazioni critiche che in più occasioni la dottrina ha svolto con riferimento alla previsione di cui all'art. 8, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 231/2001, ai sensi del quale «la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato». Se, infatti, è ovvia la ratio di tale previsione – ovvero evitare che la società possa andare indenne da sanzione quando risulti acclarata la commissione di un illecito a suo vantaggio ma al contempo non sia stato individuato il singolo che ha posto in essere la condotta di reato – è altresì vero che per diverse ragioni pare difficilmente configurabile la condanna di una società in assenza della previa dichiarazione di colpevolezza di una persona fisica (di diverso avviso è la giurisprudenza, secondo cui “in tema di responsabilità da reato dell'ente, questo, in caso di assoluzione dal reato-presupposto del legale rappresentante, risponde dell'illecito amministrativo, a condizione che il fatto sia stato accertato nella sua dimensione storica e sia riferibile a uno dei soggetti indicati dall'art. 5 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, pur se manchi o sia insufficiente la prova della responsabilità individuale degli stessi”, Cass., sez. III, 14 febbraio 2024, n. 24058; Cass., sez. IV, 10 febbraio 2023, n. 10143).

In primo luogo, come si è già visto, la individuazione di costei e del ruolo – apicale o subordinato – che riveste nell'organismo collettivo è circostanza decisiva per indirizzare le modalità di svolgimento del successivo giudizio nei confronti della persona giuridica, giacché, a seconda che responsabile per il reato sia ritenuto un soggetto posto in posizione dirigenziale o un soggetto sottoposto all'altrui direzione, mutano l'onere della prova circa la sussistenza della colpa organizzativa, l'incidenza causale dell'omessa vigilanza sulla condotta delittuosa e la possibilità di escludere l'inosservanza degli obblighi di vigilanza in caso di adozione ed attuazione del modello organizzativo – gestionale. In secondo luogo, la determinazione del singolo responsabile dell'illecito influenza altri profili rilevanti della decisione circa la colpevolezza della società - ad esempio, l'individuazione dell'autore del reato è essenziale per decidere se applicare o meno le sanzioni interdittive - in quanto laddove il reato risulti commesso da persone soggette all'altrui direzione esse la grave misura punitiva può essere disposta solo se si dimostri che “la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative”, secondo quanto dispone l'art. 13, comma 1, lett. a) del decreto – o il giudizio circa la gravità del fatto dell'ente, nell'ambito della quale gravità rientra anche il grado di colpevolezza dell'autore del reato.

Per questo motivo, a nostro parere, anziché cercare di approdare a soluzioni di compromesso – come tenta di fare la giurisprudenza, secondo cui “l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, prevista dall'art. 8, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell'ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto, tale autonomia operando anche nel campo processuale” (Cass., sez. IV, 23 maggio 2018, n. 38363. Anche Cass., sez. IV, 18 aprile 2018, n. 22468, secondo cui “in tema di responsabilità degli enti, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell'art. 8, comma 1, lett. b) d.lgs. n. 231 del 2001, deve procedere all'accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato) – occorre riconoscere come – differentemente da quanto pare ritenere la Cassazione – difficilmente il disposto dell'art. 8 in commento possa operare in relazione a reati in cui assume particolare rilievo la condotta del singolo, che con il suo comportamento e con il suo atteggiamento soggettivo impone una particolare direzionalità all'atteggiamento della persona giuridica – indirizzandolo in maniera decisiva verso una violazione delle regole, che invece di norma vengono osservate dall'impresa nell'esercizio della sua attività.

Ciò posto, ci pare però possibile che il medesimo criterio di imputazione venga richiamato allorquando l'evento delittuoso presenti una significativa connessione con l'organizzazione della società così da potersi fondatamente sostenere che – a prescindere dalla pur sussistente incidenza che sull'accaduto può aver rivestito la condotta del singolo (di cui nel caso di specie non è stato possibile definire l'identità) - il reato sia comunque per lo più riconducibile a carenze strutturali dell'impresa interessata. In sostanza, a nostro parere, il criterio di imputazione di cui al citato art. 8 può operare con riferimento alle diverse (anche se certo non numerose) fattispecie di natura colposa che rientrano fra i reati presupposto della responsabilità della società, ipotesi criminose nelle quali l'evento del reato - non è attribuibile all'iniziativa di un singolo né rappresenta la conclusione di un procedimento volitivo riferibile in via esclusiva ad una persona fisica ma piuttosto - costituisce l'esito di una serie di inefficienze organizzative della società da cui consegue il verificarsi del fatto delittuoso (per approfondimento, sia consentito il rinvio a Santoriello, Responsabilità da reato degli enti. Problemi e prassi, Milano 2023, 69 ss.. Considerazioni critiche sono espresse anche da Piccoli, La Cassazione conferma l'autonomia della responsabilità dell'ente, pur con incognite, in Giur. It., 2023, 1168).

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