Messaggi privati tra dipendenti e licenziamento per giusta causa

12 Giugno 2025

La Corte, nella pronuncia in commento, sulla scia tracciata da altro precedente pronunciamento ritiene cedevole l'interesse del datore a sanzionare la condotta del lavoratore, espressa in ambiti e modalità tali da qualificare la stessa come riservata, rispetto al valore della segretezza della corrispondenza, il cui riflesso è l'inutilizzabilità disciplinare e, per traslato, processuale, delle captazioni.

Massima

In tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una chat privata, seppure contenenti commenti offensivi, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non a una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile. Essi sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l'esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse.

Il caso

Una lavoratrice, con mansioni di commessa di negozio, veniva sottoposta a procedimento disciplinare e, successivamente, licenziata per giusta causa per aver diffuso, nell'ambito di una chat WhatsApp condivisa con una quindicina di colleghi di lavoro, una ripresa, effettuata nel negozio dove lavorava, avente ad oggetto una cliente particolarmente corpulenta, con l'intento di metterne in evidenza le fattezze fisiche.

Proposta impugnativa dinanzi al Tribunale con ricorso Fornero (art. 1, comma 47 e ss. l. n. 92/2012), il licenziamento veniva dichiarato illegittimo sia nella fase a cognizione deformalizzata che nel procedimento di opposizione. Proposto reclamo dinanzi alla Corte d'appello, quest'ultima ribaltava il verdetto, dichiarando il licenziamento legittimo.

La questione

Nel ricorso per cassazione veniva, innanzitutto, evidenziato il carattere chiuso della chat, quale indice sintomatico dell'interesse dei membri a non divulgare i contenuti in essa scambiati nonché la segretezza dei contenuti postati. Nel caso di specie, il video era stato postato sulla chat del gruppo creato tra colleghi di lavoro, in un ambiente (virtuale) ad accesso limitato e protetto, e ciò denotava il carattere di segretezza della comunicazione, con esclusione che quanto in esso circolante potesse essere veicolato all'esterno.

La natura segreta della comunicazione imponeva, secondo la difesa della lavoratrice, l'applicazione di precetti di promanazione costituzionale, e in particolare dell'art. 15 Cost., a tutela della segretezza e riservatezza della corrispondenza.

La condotta della società, che era entrata in possesso del video grazie a un partecipante alla chat, e l'aveva utilizzato a fini disciplinari, integrava un vero e proprio controllo a distanza della lavoratrice, eccentrico rispetto ai limiti di cui all'art. 4 St. lav., risultando la comunicazione veicolata attraverso il cellulare privato della dipendente, cui il datore non poteva in alcun modo avere accesso.

Sotto il profilo probatorio, inoltre, veniva contestato l'assunto, contenuto nella sentenza di appello, secondo cui l'omessa presa di posizione della dipendente, in sede disciplinare e processuale, configurasse confessione stragiudiziale dell'addebito o integrasse la non contestazione ai sensi dell'art. 115 c.p.c.

Le soluzioni giuridiche

La Corte, nel cassare con rinvio la sentenza della Corte d'Appello, richiamava e valorizzava l'art. 15 Cost., il cui principio risulta attualizzato e adeguato alle nuove forme di comunicazione (cfr. C. cost. 27 luglio 2023, n. 170), quali "posta elettronica e messaggi inviati tramite l'applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea)”, che rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione, apparendo del tutto assimilabili a “lettere o biglietti chiusi”. In particolare, il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che ha la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto da codici di accesso o meccanismi di identificazione.

Veniva, poi, richiamato altro precedente (Cass. civ., sez. lav., 10 settembre 2018, n. 21965), che aveva negato la valorizzazione in chiave disciplinare di messaggi contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, scambiati in una chat privata, considerati come corrispondenza privata chiusa e inviolabile, essendo diretti unicamente agli iscritti a un determinato gruppo e non a una moltitudine indistinta di persone, non idonei a realizzare una condotta diffamatoria.

Osservazioni

La valorizzazione, in chiave disciplinare, di contenuti di messaggistica istantanea inviati su una chat di gruppo, induce a riflettere innanzitutto, in caso di proiezione giudiziale della questione, in ordine al valore processuale dell'eventuale produzione, in formato testo o digitale, del messaggio o del file video o audio c.d. contenente.

Posta la nota regola di ripartizione dell'onere probatorio in tema di licenziamenti (e, più in generale, di sanzioni disciplinari), espressa dall'art. 5 l. n. 604/1966, che pone a carico del datore di lavoro l'onere di fornire evidenza circa la sussistenza del fatto e al suo rilievo disciplinare, si rileva come le comunicazioni testo, audio o video di messaggistica istantanea (es. Whatsapp, Telegram, sms), e le comunicazioni e-mail, siano utilizzabili quale prova documentale e possano essere legittimamente acquisite, mediante produzione digitale, eventualmente accompagnata da trascrizione, o mera riproduzione fotografica, rientrando tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. che formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime (Cass. civ., sez. II, 18 gennaio 2025, n. 1254).

Il principale banco di prova dell'utilizzabilità di comunicazioni private, inviate in una chat di gruppo tra colleghi dal cellulare privato, appare essere la garanzia costituzionale della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, che impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell'intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.

La Corte, nella pronuncia in commento, sulla scia tracciata da altro precedente pronunciamento (Cass. civ., sez. lav., 10 settembre 2018, n. 21965) ritiene dunque cedevole l'interesse del datore a sanzionare la condotta del lavoratore, espressa in ambiti e modalità tali da qualificare la stessa come riservata, rispetto al valore della segretezza della corrispondenza, il cui riflesso è l'inutilizzabilità disciplinare e, per traslato, processuale, delle captazioni.

Meno condivisibili appaiono, invece, i richiami operati, nella pronuncia in commento, all'art. 4 St. lav. ed alla fattispecie della diffamazione.

Il dispositivo cellulare privato, che il lavoratore utilizzi per inviare comunicazioni riservate a un gruppo di colleghi, il cui contenuto sia disvelato da uno dei partecipanti al datore di lavoro, non rientra nel novero degli «strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori», la cui installazione e utilizzo sono consentiti per talune esigenze, tassativamente individuate dalla norma, e previo accordo con le rappresentanze sindacali.

Al contempo audace appare l'affermazione secondo cui, in tali fattispecie, non possano configurarsi gli estremi della fattispecie delittuosa della diffamazione (art. 595 c.p.) che è viceversa integrata, secondo la giurisprudenza penale, nel caso di invio di messaggi contenenti espressioni offensive su una chat condivisa da più persone, quando la persona offesa faccia parte della chat ma non li abbia percepiti nell'immediatezza, in quanto non collegata al momento del loro recapito, o non ne faccia parte (Cass. pen., sez. V, 10 giugno 2022, n. 28675, Cass. pen., sez. V, 4 marzo 2021 n. 13252). L'elemento psicologico della diffamazione, difatti, declinato in termini di consapevolezza di pronunziare o di scrivere una frase lesiva dell'altrui reputazione e nella volontà che la frase denigratoria venga a conoscenza di più persone non è eliso dalla circostanza che il consesso dei destinatari della comunicazione sia chiuso o limitato.

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