L'attribuzione al g.e. del potere di disporre una misura coercitiva

11 Giugno 2025

A distanza di più di dieci anni dall'introduzione nel codice di rito della misura coercitiva, il legislatore delle recenti riforme è intervenuto ben due volte sul testo dell'art. 614-bis c.p.c., introducendo norme di difficile interpretazione, delle quali si darà conto nel presente lavoro.

Il potere del g.e. di disporre la misura coercitiva. Caratteri generali

In ossequio alle direttive contenute nella legge n. 206/2021 (prevedere «l'attribuzione al giudice dell'esecuzione del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non è stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento»), il d.lgs. n. 149/2022 ha inserito un nuovo secondo comma all'interno dell'art. 614-bis c.p.c., a mente del quale «Se non è stata richiesta nel processo di cognizione, ovvero il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza, o ritardo nell'esecuzione del provvedimento è determinata dal giudice dell'esecuzione, su ricorso dell'avente diritto, dopo la notificazione del precetto. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni di cui all'articolo 612».

Precisa la Relazione illustrativa che la nuova disposizione «è volta a porre rimedio ad una lacuna della normativa vigente che attribuisce al solo giudice» della cognizione il potere di concedere la misura coercitiva, permettendo all'avente diritto alla prestazione risultante da un titolo esecutivo stragiudiziale di evitare di instaurare un processo ad hoc per ottenere l'astreinte. Lo stesso può ripetersi per il caso in cui il titolo esecutivo sia costituito da un lodo arbitrale.

Inoltre, il giudice dell'esecuzione può essere chiamato ad emettere la misura in una fattispecie ulteriore, i.e. quando nel precedente o separato giudizio di cognizione in cui si è formato il titolo giudiziale consistente nel provvedimento di condanna, il creditore, pur potendolo, non si è avvalso della facoltà di chiedere l'adozione di una misura di coercizione da parte del giudice della cognizione.

La misura coercitiva accessoria ad un titolo esecutivo stragiudiziale

Se in linea generale la possibilità per il giudice dell'esecuzione di munire ad un titolo esecutivo stragiudiziale una misura coercitiva utile ad indurre l'obbligato ad adempiere volontariamente all'obbligazione contenuta nel titolo merita approvazione, vi è però da chiedersi se sia effettivamente utile prevedere la possibilità di ricorrere al giudice dell'esecuzione per l'irrogazione di una misura coercitiva accessoria ad un lodo arbitrale o se invece ciò non sia necessario, potendo lo stesso collegio arbitrale provvedervi; per dare un'opportuna risposta a tale quesito appare opportuno distinguere tra lodo rituale e lodo irrituale.

Quanto al primo, si è in presenza di un provvedimento al quale la legge attribuisce efficacia di sentenza e richiede l'omologazione soltanto per l'attribuzione allo stesso dell'efficacia di titolo esecutivo. Stante la ormai indiscussa natura giurisdizionale del lodo, pare allora che sia ben possibile per gli arbitri rituali irrogare le misure coercitive di cui all'art. 614-bis c.p.c.

Peraltro, oggi, alla luce del nuovo art. 818 c.p.c., che ha espressamente attribuito agli arbitri rituali il potere di emanare misure cautelari nell'ipotesi di espressa volontà delle parti in tal senso manifestata nella convenzione di arbitrato, vi è da chiedersi per quale motivo si dovrebbe negare agli arbitri la possibilità di emettere misure coercitive; opinare in senso contrario rappresenta senza dubbio una soluzione non conforme all'equilibrio sistematico venutosi di recente a creare per effetto dell'attribuzione all'arbitrato del carattere di procedimento giurisdizionale alternativo a quello statuale.

Discorso diverso deve essere condotto riguardo all'arbitrato irrituale. Con tale strumento, infatti, gli arbitri decidono la controversia secondo una determinazione contrattuale, per cui se le obbligazioni accertate dal lodo irrituale restano inadempiute occorrerà instaurare un giudizio a tutela dei corrispondenti diritti nel quale il giudice adito potrà, su istanza della parte interessata, emanare una misura coercitiva; la necessità di ricorrere al giudizio di merito, allora, pone fuori gioco il giudice dell'esecuzione che dunque sarà carente di legittimazione ad adottare un provvedimento di tal fatta.

Di sicuro, il ricorso al g.e. è possibile in presenza di un verbale di conciliazione giudiziale; in tal caso la parte interessata può rivolgersi al giudice dell'esecuzione affinché provveda a garantire l'attuazione del comando contenuto nel titolo esecutivo tramite l'irrogazione di una misura coercitiva. E' ovvio che in tanto l'istanza del g.e. deve ritenersi ammissibile se ed in quanto i verbali di conciliazione non abbiano ad oggetto somme di danaro, perché altrimenti sarebbero eseguibili nelle sole forme del libro III del codice di procedura civile a causa della limitazione contenuta nell'art. 614-bis c.p.c. Si tratterà dunque delle conciliazioni avvenute innanzi al giudice o di quelle realizzatesi in via stragiudiziale e aventi ad oggetto obblighi diversi dal pagamento di una somma di danaro. Invero, le parti potrebbero evitare il ricorso al giudice dell'esecuzione tramite l'inserimento all'interno dell'accordo di una clausola penale a garanzia dell'adempimento delle obbligazioni diverse dal pagamento della somma di denaro; ammettendo tale possibilità, però, l'attribuzione al giudice dell'esecuzione di siffatto potere finisce per apparire ultronea e forse anche inopportuna.

I poteri del g.e. nell'adozione della misura

Dalle riflessioni svolte nel precedente paragrafo sembra allora che la novità introdotta non solo non appaia necessitata, ma si appalesi anche foriera di dubbi e perplessità, anche alla luce della considerazione che l'attribuzione al g.e. del potere di adottare un provvedimento di condanna, qual è la misura coercitiva, rischia di compromettere il già precario equilibrio sistematico circa i rapporti tra il giudice della cognizione e quello dell'esecuzione. Come da sempre si insegna, infatti, il giudice dell'esecuzione non ha il compito di pronunciare provvedimenti di condanna, ma solo quello di permettere l'attuazione coattiva dei diritti consacrati in un titolo esecutivo. Al contrario, la misura coercitiva di cui all'art. 614-bis c.p.c. viene costruita dal legislatore quale diritto soggettivo autonomo, sebbene accessorio ad un altro diritto consacrato in un provvedimento di condanna. Se così è, ne scaturisce un ampliamento dei poteri lato sensu cognitivi che, a partire dalla legge n. 80/2005, sono stati via via attribuiti dal legislatore al giudice dell'esecuzione.

Non appare dubbio infatti che «almeno per l'irrogazione della misura di coercizione indiretta al giudice dell'esecuzione è attribuito un potere cognitivo diretto e pieno, in tutto analogo a quello attribuito al suo collega della cognizione, di valutazione della sussistenza o meno dei presupposti di una fattispecie legale per l'emanazione di un nuovo e separato titolo esecutivo: e che, quindi, appunto almeno in tale subprocedimento, il giudice dell'esecuzione viene ad esercitare una giurisdizione cognitiva piena, come se la potestà di pronuncia di questo peculiare provvedimento giurisdizionale (in cui ogni misura di coercizione indiretta consiste) fosse a lui conferita o trasferita» [(De Carolis – Farina -) De Stefano, L'esecuzione forzata, in La riforma del processo civile, a cura di Giordano – Panzarola, Milano, 2024, 330].

Ulteriori problemi interpretativi sorgono quando poi si passa ad esaminare le modalità operative di adozione della misura. Come accennato, infatti, il legislatore, nel regolare le modalità di ottenimento della comminatoria davanti al giudice dell'esecuzione, sceglie di rinviare ad un procedimento già esistente, i.e. a quello regolato dagli artt. 612 e seguenti del codice di rito.

Il rinvio al procedimento di attuazione degli obblighi di fare fungibile ha determinato il sorgere del dubbio se sia possibile concedere la misura con riguardo ad un titolo esecutivo relativo ad un obbligo infungibile, in quanto almeno prima facie il rinvio al procedimento di cui all'art. 612 c.p.c. sembrerebbe postulare «letteralmente ed intuitivamente che un'esecuzione (per obblighi di fare o di non fare) sia ammissibile e possibile» (De Stefano, op. ult. cit.).

Ad avviso di chi scrive, se è vero che l'art. 612 c.p.c. esclude la tutelabilità di un obbligo di fare infungibile, sembra che il rinvio all'articolo in discorso sia stato compiuto dal legislatore al solo scopo di permettere al creditore che non se ne è premunito prima di conseguire la misura coercitiva previa l'instaurazione del contraddittorio tra le parti; se così non fosse, la novità risulterebbe sicuramente depotenziata, in aperto contrasto con la voluntas legis. Pertanto, sembra possibile sostenere che il riferimento all'art. 612 c.p.c. sia stato effettuato solo per permettere al giudice di avvalersi delle forme agili e snelle dell'esecuzione degli obblighi di fare senza che ciò possa limitare il campo di azione del giudice, anche in considerazione della circostanza che le misure coercitive sono state introdotte nel nostro ordinamento proprio allo scopo di permettere l'eseguibilità degli obblighi infungibili.

Proseguendo nella disamina della novità normativa, occorre ricordare che ai sensi del comma 2 dell'art. 614-bis c.p.c., il creditore che vanti il possesso di un titolo esecutivo cui non acceda una misura coercitiva deve notificare il precetto all'obbligato e, in caso di mancato spontaneo adempimento dell'obbligato, proporre ricorso al g.e. allo scopo di munire il titolo di una misura coercitiva.

Ma chi è il giudice dell'esecuzione competente per l'irrogazione della misura coercitiva? A mio avviso deve ritenersi colui il quale sarà competente all'esecuzione in forma specifica che il creditore potrebbe attivare in base al titolo esecutivo non spontaneamente adempiuto. Questo perché la misura coercitiva può chiedersi ed ottenersi sia dopo la notificazione del precetto e prima dell'inizio dell'esecuzione in forma specifica sia durante lo svolgimento di quest'ultima.

Al pari di quanto accade nell'ambito del processo di esecuzione degli obblighi di fare o di disfare fungibili, il ricorso, formato dal difensore munito di mandato, va depositato telematicamente; esso, completo di tutti gli elementi idonei a consentire la decisione in ordine all'applicabilità dell'art. 614-bis c.p.c. che, ove necessario, dovranno essere provati dal ricorrente, determinerà l'inizio dell'azione esecutiva, facendo sorgere il potere-dovere del giudice di fissare un'udienza di audizione delle parti, finalizzata a permettere l'instaurazione del contraddittorio ancorché in forma elastica e minimale.

Sennonché, a differenza di quanto accade usualmente nel corso del procedimento volto all'esecuzione degli obblighi di fare, al g.e. adito per l'emanazione di una misura coercitiva, toccherà svolgere un'attività istruttoria finalizzata all'accertamento della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 614-bis c.p.c.; ora, non pare dubbio che in tal modo il g.e. svolgerà una vera e propria attività cognitiva (seppure informale e semplificata) che sfocerà nell'adozione di un provvedimento di condanna. Tuttavia, in coerenza con quanto previsto dall'art. 612 c.p.c., deve ritenersi che detto provvedimento, in quanto adottato da un giudice dell'esecuzione, oltre a dover necessariamente presentare la forma dell'ordinanza, dovrà presentare i caratteri dei provvedimenti esecutivi e come tale sarà opponibile nei modi previsti dall'art. 617 c.p.c. Si viene così a creare un ibrido in cui diviene difficile distinguere i caratteri cognitivi da quelli esecutivi presenti nel procedimento con delle conseguenze pratiche non facilmente prevedibili.

Non va inoltre sottovalutato il rischio che il giudice dell'esecuzione, nell'adottare la comminatoria di cui all'art. 614-bis c.p.c., ponga in essere delle misure che sono diverse o in contrasto con quelle fissate nel titolo esecutivo; in tal caso, si porrà un fenomeno analogo a quello che avviene nell'ambito del procedimento di esecuzione degli obblighi di fare, in cui il g.e. potrebbe adottare misure determinative delle modalità esecutive in contrasto con il contenuto del titolo esecutivo. In tal caso, il problema appare tuttavia facilmente risolvibile alla luce della giurisprudenza formatasi a partire da Cass. civ. 21 luglio 2016, n. 15015, secondo cui il processo esecutivo prevede un sistema chiuso di rimedi, tanto che deve reputarsi superato il tradizionale orientamento per il quale egli, quando travalica dai limiti dei suoi poteri, pronuncia provvedimenti aventi natura di sentenza: pertanto, qualora ciò accada sarà possibile contestare il provvedimento tramite lo strumento dell'opposizione esecutiva di cui all'art. 615 c.p.c.; occorrerà invece proporre opposizione agli atti esecutivi per valere l'incongruità della scelta giudiziale o nel caso in cui il giudice che ha emesso la misura risulti incompetente, non potendosi senz'altro ammettersi l'esperibilità del regolamento di competenza.

Vi è poi da chiedersi se la misura coercitiva così pronunciata debba essere munita di una pronuncia sulle spese autonoma ed ulteriore: la risposta pare debba essere positiva, quando si consideri che si tratta di un provvedimento che chiude il relativo procedimento.

Conclude la relazione governativa al decreto delegato soggiungendo che «l'opposizione all'esecuzione può essere utilizzata nelle ipotesi di cui all'art. 615 c.p.c., anche nelle forme dell'opposizione a precetto»; tale possibilità deve ammettersi, oltre per far valere l'eccessività della pretesa esecutiva per come formulata dal creditore nell'atto di precetto, per far valere quei fatti che non è stato possibile, a causa della formazione stragiudiziale del titolo azionato, dedurre per contestare la pretesa esecutiva. 

L'inefficacia della misura coercitiva in caso di estinzione del processo

L'art. 3, comma 7, lett. r), d.lgs. n. 164/2024 (c.d. decreto correttivo alla riforma Cartabia) ha inserito nel comma 2 dell'art. 614-bis c.p.c., dopo il primo periodo, la frase seguente: «il provvedimento perde efficacia in caso di estinzione del processo esecutivo».

La dottrina che si è interrogata sulla portata di tale innovazione si è chiesta a quale processo esecutivo la norma si riferisca, in quanto attorno alla norma ruotano almeno tre processi esecutivi: 1) quello relativo al procedimento di cui all'art. 612 c.p.c. all'esito del quale viene adottata la misura coercitiva; 2) quello che  va instaurato sulla base del titolo esecutivo di cui si è in possesso e che è necessariamente un procedimento di esecuzione in forma specifica; 3)- ed infine il procedimento di espropriazione che può essere adottato in caso di inosservanza della misura coercitiva.

Ora va escluso senz'altro che il legislatore del correttivo possa essersi riferito a quest'ultima tipologia di procedimento, perché «se è l'astreinte titolo esecutivo ad essere portata in executivis, non avrebbe senso la perdita di efficacia del provvedimento in caso di estinzione dell'espropriazione forzata intrapresa» (Capponi, I poteri del giudice dell'esecuzione alla luce del comma 2 dell'art. 614 bis c.p.c. come modificato dal “correttivo” (d.leg. 31 ottobre 2024 n. 164), in Foro it., 2025, V, 110 ss.).

Del pari, non avrebbe senso riferirsi al procedimento di cui all'art. 612 c.p.c. necessario per l'adozione della misura coercitiva, in quanto una volta adottato il provvedimento richiesto il processo di cui all'articolo 612 c.p.c. ha raggiunto il suo scopo e si esaurisce senza che possa parlarsi di estinzione (Luiso, Il processo civile. Commentario breve al c.d. “correttivo Cartabia” (d.leg. 31 ottobre 2024 n. 164), Torino, 2024, 163 ss.).

Resta allora il procedimento esecutivo di esecuzione forzata in forma specifica, il quale si aggiunge alla minaccia fatta valere dal creditore tramite la misura coercitiva. Difatti, a seguito dell'adozione della misura coercitiva, l'obbligato si trova a dover subire non solo il pregiudizio derivante dall'esecuzione in forma specifica con il conseguente carico delle spese, ma anche quello derivante dall'astreinte, il quale a sua volta apre la prospettiva di un futuro processo per espropriazione forzata.

Allo scopo di tentare di dare un senso alla norma, parte della dottrina (Soldi, Manuale dell'esecuzione forzata, IX ed., Milano, 2024, 2537 ss.) osserva che, a differenza della astreinte comminata dal giudice della cognizione, la quale, per espressa previsione del comma 1 dell'art. 614-bis c.p.c., può nascere limitata nel tempo giacché «Il giudice può fissare un termine di durata della misura, tenendo conto della finalità della stessa e di ogni circostanza utile» (comma 1, ultimo periodo), la comminatoria adottabile dal g.e. non può essere da quest'ultimo delimitata temporalmente, in quanto il comma 2 della norma non prevede nulla al riguardo. In mancanza di una possibile delimitazione nel tempo, la previsione secondo cui l'estinzione del processo esecutivo determina la perdita di efficacia dell'astreinte sembrerebbe imporre al creditore l'onere di iniziare e proseguire l'esecuzione in forma specifica del titolo esecutivo cui accede la misura coercitiva, in modo da evitare che il crescente accumulo collegato al meccanismo dell'astreinte possa indurlo a non coltivare o addirittura a rinunciare all'esecuzione diretta per pretendere il pagamento degli importi che man mano si accumulano in virtù della misura coercitiva senza termine adottata dal g.e.

Sennonché, è stato giustamente replicato che «Se questa fosse davvero la spiegazione dell'oscuro riferimento alla estinzione del processo esecutivo, introdotto dal correttivo, la conseguenza sarebbe che il g.e., per poter esaminare la richiesta di astreinte, dovrebbe anzitutto verificare la previa pendenza dell'esecuzione diretta; inoltre, non potrebbe provvedere laddove il titolo, giudiziale o stragiudiziale, non sia suscettibile di un'esecuzione forzata tipica nelle forme del libro III. Una conseguenza estrema, specie tenuto conto che il comma 2 si limita ad affermare che la somma dell'astreinte è determinata dal g.e. “dopo la notificazione del precetto”, quando cioè il processo esecutivo ancora non ha avuto formalmente inizio» (Capponi, op. ult. cit.).

Peraltro, ad avviso di chi scrive ben si potrebbe interpretare i poteri del g.e. alla luce di quelli previsti in favore del giudice della cognizione, non potendosi differenziare i poteri del g.e. da quelli del giudice della cognizione, in tal modo ammettendo che anche il g.e. ha il potere di regolare l'efficacia nel tempo della comminatoria.

Per cercare di dare un senso alla nuova previsione, si è allora sostenuto che il riferimento alla “estinzione” debba essere inteso quale “esaurimento” del processo esecutivo «per raggiungimento dello scopo ovvero per conclamata impossibilità di raggiungerlo» (Capponi, op. ult. cit.), con la conseguenza che l'astreinte è destinata a perdere efficacia non solo nella fisiologica eventualità in cui l'obbligato adempia volontariamente o forzosamente la prestazione contenuta nel titolo, ma anche quando il processo esecutivo si esaurisca per impossibilità di realizzare lo scopo al quale esso era preordinato.

Anche questa soluzione appare forzata, apparendo ad avviso di chi scrive più semplicemente che il legislatore, partendo dal carattere ancillare della comminatoria, abbia voluto affermare che il venir meno dell'esecuzione in forma specifica determini anche l'inefficacia della misura coercitiva, quale sanzione per il disinteresse manifestato dalla parte procedente nel non aver proseguito l'azione esecutiva o aver addirittura rinunciato ad essa.

Il potere del giudice dell'esecuzione di adottare la misura quando essa non è stata richiesta al giudice della cognizione

Come anticipato, il giudice dell'esecuzione può disporre misure coercitive nel caso in cui non siano state «richieste» al giudice che ha pronunciato il provvedimento.

Il riferimento letterale contenuto nella norma deve indurre a ritenere che la potestà di pronunciare sulla domanda di misura di coercizione indiretta trova un suo istituzionale limite nel fatto che la potestà stessa sia stata esercitata da altro giudice, così dovendosi ritenere consumata: pertanto, va esclusa la possibilità, per il giudice dell'esecuzione, di irrogare la misura quando la relativa domanda sia stata esaminata e disattesa dal giudice della cognizione al quale era stata rivolta.

Se nessun problema si pone qualora la condanna a un'attività diversa dal pagamento di una somma di denaro sia contenuta in una sentenza già passata in giudicato, più complessa è la situazione laddove invece il provvedimento sia ancora impugnabile.

Occorre al riguardo distinguere: se la misura non è stata proprio chiesta, non residuerà altro per l'avente diritto che proporre ricorso ex art. 614-bis, comma 2, c.p.c. per ottenere l'adozione della misura coercitiva ad opera del giudice dell'esecuzione.

Se invece la richiesta era stata formulata innanzi al giudice della cognizione, ma costui non vi ha provveduto, allora, saremo in presenza di un'ipotesi di omissione di pronuncia non essendo stata decisa la domanda nella sua completezza. A fronte di tale vizio saranno possibili due strade: la parte potrà proporre impugnazione contro la decisione così emessa, facendo valere la violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato di cui all'art. 112 c.p.c. (Cass. 27 novembre 2017, n. 28308) o, in alternativa, potrà riproporre la domanda avente ad oggetto l'adozione della misura coercitiva al giudice dell'esecuzione, in quanto nell'ipotesi in esame (e più in generale in ogni caso di omissione di pronuncia) non può formarsi il giudicato mancando una decisione neppure implicita.

«Naturalmente non è consentita la duplicazione di tutela» (Olivieri, Le misure coercitive indirette riformate, in Inexecutivis.it, 4 luglio 2023, § 3): colui che chieda al giudice dell'esecuzione di porre rimedio all'omissione di pronuncia sulla richiesta di misure coercitive in sede cognitiva dovrà dimostrare che il provvedimento viziato è divenuto definitivo per la mancata proposizione della relativa impugnazione. In caso contrario, nel caso in cui cioè la parte proponga istanza al g.e. nonostante abbia già proposto il rimedio impugnatorio avverso il provvedimento reso all'esito del procedimento di cognizione, il giudice adito in sede esecutiva dovrà dichiarare inammissibile l'istanza proposta per carenza dei presupposti previsti dalla legge.

Riferimenti bibliografici

Cardinale, L'esecuzione indiretta, in La riforma del processo civile, a cura di Dalfino, Foro it., gli Speciali, n. 4 del 2022, 525;

Limongi, Misure coercitive indirette (art. 614 bis c.p.c.), in La riforma Cartabia del processo civile. Commento al d.leg. 10 ottobre 2022 n. 149, a cura di Tiscini, Pisa, 2022, 734;

Maruffi, Prime note sulle modifiche alla disciplina delle misure coercitive di cui all'art. 614 bis c.p.c., in Il diritto degli affari, 2023, 137;

Nascosi, Le misure coercitive indirette rivisitate dalla riforma del 2022, in Riv. dir. proc., 2022, 1224;

Olivieri, Le misure coercitive indirette riformate, in Inexecutivis.it, 4 luglio 2023;

Palomba, Le misure di coercizione indiretta, in Il nuovo processo di esecuzione, a cura di Di Benedetto - Filippini, Torino, 2023, 143 ss.;

Vincre, Le nuove norme sul processo esecutivo e sull'esecuzione indiretta, in Riv. dir. proc., 2023, 700.

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